Le convention sono terminate da qualche giorno ma l’attenzione collettiva americana su i candidati non è diminuita.

L’inizio dei raid in Libia occupa le pagine principali del New York Times e del Wall Street Journal, ma l’interesse degli americani è monopolizzato più dalla politica interna, che dagli affari internazionali in cui questa amministrazione è implicata, grazie anche alle sparate del candidato repubblicano alla presidenza degli Stati uniti, Donald J. Trump.

Nelle ultime 48 ore Trump è riuscito a metterne in fila una serie. La più recente durante una conferenza stampa, quando ha affermato più volte (tre, per l’esattezza) che se un governo possiede armi nucleari è per usarle, e che se sarà eletto quelle armi lui potrebbe tranquillamente usarle. Pochi giorni fa, insieme al figlio Eric, aveva affermato che delle donne forti e in gamba come Ivanka (la figlia) non starebbero a lamentarsi per una molestia sessuale sul lavoro, cambierebbero lavoro o carriera e basta; poi, durante un comizio, ha fatto allontanare una mamma con neonato, perché il bambino piangeva e quel suono lo disturbava; ha ingaggiato una polemica a distanza insultando Khizr Khan, oratore alla convention democratica, padre musulmano di un soldato americano ucciso in guerra.

Ora che le nomination sono state ufficializzate, Trump e Clinton sono i candidati reali per il prossimo mandato e la percezione, nonostante la convention sia più che altro una formalità, un rito politico collettivo, è cambiata.

Trump ora ha uno spessore di realtà in più e in America sono un po’ più consapevoli del fatto che potrebbe effettivamente essere eletto, ed avere il potere non solo di distruggere l’economia americana, quel poco di stato sociale costruito nei due mandati di Obama, ma anche di innescare dei disastri internazionali che metterebbero a serio pericolo la sicurezza degli americani.

La retorica secondo la quale le sparate polemiche di Trump fossero “solo” un espediente per passare le primarie e diventare il candidato e che, una volta nominato, Trump avrebbe abbassato i toni per proporsi in modo più presidenziale, sta facendo acqua.

Trump non solo non abbassa i toni, anzi, rilascia dichiarazioni ad effetto su la politica estera senza però parlare di strategie in quanto «svelare i piani per eliminare l’Isis darebbe un vantaggio ai terroristi».

Il suo stesso staff non fa mistero delle difficoltà che sta incontrando in questi giorni; persone che lavorano alla sua campagna cominciano a manifestare un’evidente frustrazione per la sua insistenza nel voler condurre la partita a modo proprio e descrivono una serie di passi falsi anche nei confronti del partito repubblicano cui il candidato dovrebbe appartenere: la decisione di Trump di non voler sostenere, nelle loro primarie, il presidente della Camera Paul Ryan, e il candidato presidenziale del 2008, John McCain, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha portato ad alcune defezioni importanti. Una fonte repubblicana ha dichiarato alla Cnn che anche il manager della campagna, Paul Manafort, «si sente, come molti altri, di star perdendo il proprio tempo».

Altro timore del team che gestisce la campagna è un possibile dietrofront di Trump in caso continuasse a scendere nei sondaggi. L’ultimo della Fox News da Hillary Clinton staccata di 10 punti (50% contro il 40 del miliardario).

Al momento l’abbandono dalla corsa non è uno scenario plausibile, Trump ha ancora un preoccupante appeal nella fascia di voto dei maschi bianchi con un basso grado di istruzione, ma il solo fatto che lo staff si stia facendo questa domanda è un elemento rivelatore dell’insicurezza e instabilità della candidatura Trump.

Vista la sua personalità, visto come dimostra di non saper metabolizzare le critiche e le sconfitte pubbliche, non sarebbe sorprendente se, all’ultimo momento, in caso di debacle assicurata, Trump decidesse di non voler subire una sconfitta elettorale e si ritirasse, aprendo un problema davvero inusuale.