ExtraTerrestre

Il migrare lento di Zambo nella vastità dell’Appennino

La dendroteca Pitagora scrisse che l’inizio della saggezza è il silenzio. Il silenzio, così ben descritto da padre Giovanni Pozzi nel suo libello Tacet (Adelphi), implica quel movimento tanto caro ai maestri […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 1 marzo 2018

Pitagora scrisse che l’inizio della saggezza è il silenzio. Il silenzio, così ben descritto da padre Giovanni Pozzi nel suo libello Tacet (Adelphi), implica quel movimento tanto caro ai maestri buddisti verso il nulla, il tacere meccanico, biologico, l’emissione di suoni che prima di tutto reclama un silenzio mentale, quel «fare vuoto» che noi, nel nostro vocabolario quotidiano spesso travisiamo pensando che appunto si tratti solo di non produrre rumore. Grazie all’esperienza impariamo che esiste silenzio e silenzio, e che il silenzio che spesso si cerca scarpinando lungo un sentiero in montagna è un silenzio che mai potremmo trovare altrove.

Esiste nell’editoria attuale una certa voglia di pauperismo. Non sono pochi i romanzi e ancor più i saggi – per quanto ampie, diversificate e ibride siano oramai diventate le forme di narrazione – che nascono e radicano in ambienti naturali, talora provinciali, talora agresti, talora remoti, con al centro personaggi che mossi da varie ragioni riconquistano un andamento lento, un’attenzione per i piccoli oggetti dimenticati di una vita materiale, senza slanci politici, dimenticandosi anzi che esiste un mondo oltre il proprio piccolo precipitante universo. In questa rubrica abbiamo già incontrato Farandola e altre anime flebili tratteggiate dalla penna del valdostano Claudio Morandini, nondimeno potremmo citare l’esempio dell’autore del momento, il milanese d’origine e montanaro d’adozione Paolo Cognetti, e così potrei dilungarmi negli elenchi di tanti indagatori che scrivono illuminati dalla natura: il viandante Luigi Nacci, il geopoeta Davide Sapienza, l’esploratore Franco Michieli, il camminatore Riccardo Carnovalini, il giornalista girovago Paolo Rumiz. E non dimentichiamo la poesia, anch’essa affascinata dal richiamo della natura, e basti pensare, fra le molte voci, alla lirica di Pierluigi Capello, purtroppo scomparso nei mesi scorsi a soli cinquant’anni. Tutti segni nel paesaggio letterario che andremo prima o poi a visitare.

Entro i confini appena descritti si muove anche la scrittura di Matteo Caccia, giovane autore per la radio, la televisione e il teatro, nonché firma del romanzo Il silenzio coprì le sue tracce, pubblicato da Baldini&Castoldi. Zambo è un ragazzo che abbandona la città, si fa compagnia col suo fedele cane Tobia (in un’altra vita mi piacerebbe dedicare un saggio allo studio dei nomi dei personaggi della «letteratura agreste»). Vengono risucchiati fisicamente in un lembo di Appennino che qualcuno potrebbe anche riconoscere, posizionandolo fra le strade, i ponti, i ruscelli, i declivi, gli abitati, i rifugi, i boschi e le cime che vanno a configurare i polmoni verdi d’Italia, compressi fra Liguria, Toscana ed Emilia Romagna. Poco importa. Il viaggio conta sempre più del nome delle mete provvisorie. Nel suo migrare lento Zambo incontra vecchi solitari, donne aggrappate alle rocce, escursionisti gentili, pastori, osti, e incontra i veri padroni dei luoghi: il lupo, l’abete, l’acqua, la roccia. Ogni tanto la mente dell’uomo che cammina ritorna alle vite precedenti e così si aprono finestre sul padre, il fratello, il partigiano Dindon, la madre. Figure sbiadite. Non conta molto quel che accade, la trama qui pesa molto meno rispetto alle qualità delle singole presenze, dei caratteri definiti da azione, parola e dal silenzio che li circonda. C’è un consorzio di esistenze che cerca di coabitare, dandosi una mano, a non smarrirsi nella neve senza lasciar traccia.

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