Afflitti da sindrome punitivista, da manie iper-regolatorie, da infantilismo di massa, opinionisti improvvisati ed esperti di vario tipo, a destra e manca, hanno mescolato, pericolosamente e confusamente, argomenti tra loro molto diversi – ma tendenzialmente monchi, superficiali e stereotipati – per contestare, contrastare, o addirittura ridicolizzare, alcune norme presenti nell’ultimo Dpcm del Presidente Giuseppe Conte dirette a contenere l’epidemia in corso.

Mi riferisco specificatamente – ma anche paradigmaticamente – alla parte relativa a ciò che nel Dpcm si auspica non accada nei domicili privati.
Si tratta delle indicazioni governative che più hanno animato i salotti televisivi.

Nel Dpcm si legge testualmente: «Con riguardo alle abitazioni private, è fortemente raccomandato di evitare feste, nonché di evitare di ricevere persone non conviventi di numero non superiore a sei». E giù commenti, risa, ironia da parte degli ospiti fissi (vista la noiosa ripetitività delle loro presenze, più che fissi, sarebbe meglio dire fissati alle sedie) della melassa radio-televisiva.

Veniamo dunque alla norma tanto contestata e alla cultura punitiva di deresponsabilizzazione individuale e sociale sottesa. Il contrasto alla diffusione del virus può avvenire attraverso due strategie: la prima è fondata su regole rigide e sanzioni a protezione delle prescrizioni; la seconda è invece diretta a costruire meccanismi di immedesimazione e responsabilità.

La norma del Dpcm presa ad esame è in sintonia con la seconda strategia. Una società sana, empatica, nonché solidale tra generazioni, classi sociali, e condizioni personali (comprese quelle di salute) non si costruisce imponendo azioni o inerzie, ma favorendo la spontaneità dei comportamenti.

Si contesta che nella norma si scriva il numero di sei persone, che si usi il verbo raccomandare e che, infine, manchi una sanzione per renderla cogente. In primo luogo si ironizza sul numero prescelto, ossia perché sei, e non sette oppure cinque? E lì risate e finte domande: nel numero di sei dovrò contare anche gli zii, i nonni, i soli conviventi, i sub-affittuari etc etc? Il diritto, però, non può che essere un tantino manicheo.

Un numero va messo per orientare chi dovrà attenersi a quella raccomandazione. In altro campo, ad esempio, la legge ha scelto che il diritto di voto spetti a diciotto anni compiuti. Chi mai direbbe che un ragazzo diventi politicamente maturo precisamente nel giorno del suo compleanno e non un giorno prima?

Il diritto in alcuni casi è costretto a scegliere affinché possa funzionare quale regolatore sociale. In secondo luogo viene contestato l’uso del verbo raccomandare in alternativa a verbi quali prescrivere o dovere. Il miglior diritto, però, è proprio quello che crea coscienza e non obbedienza. È quello che alimenta culture solidali. Il miglior diritto è quello soft. La Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 è considerata una sorta di grundnorm pur avendo un valore esclusivamente politico e morale.

Infine si contesta nel testo la mancanza di una sanzione, che renderebbe la norma ineseguibile. Meno male che manca la sanzione. Se ci fosse stata avremmo trasformato la nostra democrazia in uno Stato di Polizia. Viviamo in una società dove la passione per le punizioni è ossessiva, dove vi sono decine di migliaia di norme penali inconoscibili e stracolme di minacce di carcere; dove si criminalizza finanche chi decide di salire su una nave per salvare vite umane. Ben venga, dunque, una singola norma, che non si affida al mito della punizione per costruire un a società più coesa. La missione dei giuristi deve essere quella di non assecondare le pulsioni aggressive e populiste.

È questo quel senso di fraternità di cui parla papa Francesco nella sua ultima Enciclica, e che ci può aiutare a riconsiderare benevolmente l’assunto kelseniano secondo cui una norma può definirsi giuridica soltanto se munita di sanzione.

La solidarietà ha bisogno di empatia e non si impone con il carcere e le punizioni.
Specularmente è demagogica e stereotipata, tutta quella legislazione (anche molto recente, si pensi alle norme che prevedono anni di detenzione per chi traffica cellulari nelle carceri) che devolve fideisticamente al diritto penale e alle prigioni l’obiettivo di una società migliore.