Assalti alle sedi dei partiti di opposizione, omicidi di giornalisti, irruzioni in parlamento: a poche ore dalle storiche dimissioni di Masoud Barzani, presidente del governo regionale (Krg), il Kurdistan brucia.

Sembra trascorso un secolo dal 25 settembre, quando milioni di kurdi si sono messi in fila ai seggi dislocati in tutta la regione per dire sì all’indipendenza da Baghdad.

Di quel voto restano solo rovine, economiche, militari e politiche. Culminate domenica nella sessione del parlamento che avrebbe tolto i poteri al presidente per redistribuirli a esecutivo, deputati e potere giudiziario. Barzani ha anticipato tutti e ha inviato una lettera con la quale fa un passo indietro: da domani sveste i panni indossati per 12 anni, quelli di presidente, e si tiene addosso – dice – quelli di peshmerga al servizio del popolo kurdo.

Apparentemente è l’implosione del potere del clan, da decenni élite politica ed economica del Kurdistan iracheno, o almeno di una sua parte, quella che fa capo alla capitale Erbil e simbolo di corruzione, clientelismo e verticismo.

Barzani ha compiuto un suicidio politico, tirando la corta dell’indipendenza e dimenticando che gli alleati storici – Turchia e Stati uniti – sfruttano i kurdi come «forza lavoro», proxy militare contro lo Stato Islamico e conveniente via di transito del greggio iracheno, per tradirne le velleità indipendentiste al momento buono.

Barzani ha perso la scommessa e quel che Erbil aveva guadagnato dagli anni ’90: l’autonomia del Krg era nei fatti qualcosa di più, uno Stato nello Stato, con un proprio esercito e ricche riserve petrolifere. Il voto del 25 settembre ha ribadito le diverse intenzioni dei vicini e l’avanzata militare irachena, durata appena 11 giorni, ha cancellato i risultati ottenuti.

La rabbia che ieri i sostenitori del Kdp, il partito dei Barzani, hanno vomitato sulle strade di Erbil e Dohuk è specchio di storiche fratture interne: una 60ina di persone ha fatto irruzione in parlamento e letteralmente rapito per oltre un’ora Rabun Maruf, capogruppo del partito di opposizione Gorran, accusato di insulti ai peshmerga. Nelle stesse ore altri filo-Kdp davano alle fiamme le sedi di Gorran, del rivale Puk (espressione della famiglia Talabani) e della radio Ashti nella città di Zakho, a nord ovest di Dohuk.

Il messaggio è chiaro: le due fazioni sono tacciate di tradimento, di aver aperto a Baghdad e ordinato la ritirata dei peshmerga legati ai Talabani da Kirkuk e le zone contese. Di fatto, dunque, di aver messo sul vassoio parlamentare la testa di Barzani. Ma l’episodio più grave è successo a Daquq, a sud di Kirkuk: Arkan Sharif, giornalista 54enne di Kurdistan Tv (vicina al Kdp), è stato ucciso a coltellate nella sua casa.

Il Kurdistan rischia il collasso e Baghdad è pronto a sguazzare sulle rovine. Eppure la sconfitta di Barzani non è totale: politico di esperienza, ha saputo – dimettendosi – dimostrare «responsabilità», ovvero riconoscere gli errori commessi (capaci di rinviare di anni il sogno dell’indipendenza).

Contemporaneamente tiene una mano infilata nel governo. Da domani i poteri della presidenza saranno spartiti tra governo, parlamento e magistratura in attesa di un eventuale interim, ma Barzani resterà a capo dell’Alto consiglio politico, organo creato per gestite la fase post-referendum.

Il tutto in vista delle elezioni parlamentari e presidenziali che avrebbero dovuto tenersi domani, ma che sono state rinviate a luglio 2018, lasso di tempo durante il quale Barzani spianerà la strada al già potente nipote Nechirvan, attuale premier kurdo e dunque primo destinatario dei poteri di Masoud, nonché tessitore degli accordi energetici con la Turchia nel 2013 e leader prediletto del presidente Erdogan. Al primo ministro spetterà il compito di ricostruire la credibilità del partito e l’autonomia (in bilico) di Erbil.

Una capitale dimezzata che ieri è stata costretta a siglare un nuovo accordo con il governo centrale di Baghdad: lo strategico valico di frontiera di Fish Khabur (tra Kurdistan iracheno, Turchia e Siria) così come la sicurezza nelle aree contese, da Diyala a Kirkuk, saranno gestiti congiuntamente da peshmerga e truppe irachene.

La linea rossa che Baghdad diceva di non voler oltrepassare (i confini ufficiali tra le due entità) è sfumata: il governo iracheno entra in Kurdistan.