L’occasione dell’incontro con Edoardo Winspeare è la presentazione di La vita in comune, il nuovo film che il regista ha girato ancora una volta in Salento (ma il prossimo, «Eva dorme» lo sta girando in Trentino). È ambientato nel comune immaginario di Disperata, un paese del sud dall’atmosfera lontana e poetica in cui si rivelano tutte le imperfezioni di un paese italiano, ma anche i pregi come l’umanità dei personaggi: un sindaco malinconico che svolge volontariato in carcere, un pregiudicato che scopre la poesia.
Come nasce l’idea del tuo film e cosa cercavi?
«La vita in comune» nasce dall’osservazione della realtà che mi circonda da quarant’anni a questa parte. Sicuramente farò altri film, ma penso sempre che questo sia l’ultimo dei miei film salentini.
Potremmo dire un punto di arrivo?
Io procedo molto per istinto poi razionalizzo, molto dopo, cercando di capire perché faccio un determinato film. M’interessava raccontare questa storia di amicizia inconsueta fra un sindaco colto di buona famiglia, timido, riservato e due banditi da strapazzo. Le persone più distanti nella società e come questa amicizia possa essere foriera di sorprese positive come la scoperta della bellezza, della cultura, del senso di vivere in comune e tutto questo sullo sfondo del quotidiano paesano.
Io penso che il Salento, ma anche tutta l’Italia, in fondo abbia un’identità di paese, in senso buono, che non vuol dire provinciale. Sentiamo molto il senso di comunità paesana, veniamo chiamati anche la nazione dei cento campanili, perché abbiamo una storia diversa dalle grandi nazioni europee. Magari puoi essere più internazionale e cosmopolita stando a Leverano o a Depressa. Questo è lo sfondo sul quale ho raccontato la storia, il paese diventa molto importante. In fondo è un micro cosmo di qualcosa di molto più grande, perché ci sono strati sociali molto diversi: classi sociali, persone colte, analfabete, persone semi analfabete, oneste, disoneste. E ci sono tutte le divisioni tipiche della politica italiana: destra, sinistra, non facciamo nomi, sono tutte liste civiche. Si litiga per qualcosa, però alla fine non si capisce per che cosa. Siamo tutti separati, divisi in consorterie. Questa è La vita in comune. Però alla fine siamo costretti a vivere insieme e le persone intelligenti devono trovare un modo per stare insieme.
E tu lo hai cercato nella poesia?
Si, nella poesia e nella bellezza. Infondo il tema del film è la scoperta della bellezza. La poesia è un modo. Avevo pensato anche al cinema però poi è troppo autoreferenziale, perché io amo troppo il cinema.
Ci può essere un rapporto tra te e il sindaco? Ti sei un po’ disegnato in questo personaggio?
Sicuramente. In qualche maniera io mi disegno sempre in certi personaggi, un po’ mi rivedevo nel giudice interpretato da Fabrizio Gifuni in Galantuomini. Mi sono sempre innamorato di ragazze totalmente diverse da me. Il mio interesse per l’opposto, per la malavita, per esempio. Scoprire perché uno sceglie di far parte della Sacra Corona Unita o di fare il contrabbandiere; andare a scoprire le motivazioni, i percorsi esistenziali delle persone che sono totalmente diverse dalla mia famiglia, da me stesso. Come il sindaco ho avuto delle storie un po’ simili, sono diventato molto amico di Piero Zimba, buon’anima. Io amo molto il cinema, amo anche la poesia, l’arte contemporanea e ho deciso di far insegnare a Gustavo, il sindaco, la poesia proprio perché non volevo che fosse troppo simile a me.
Le poesie presenti nel film, sono dei testi che avete scelto tra quali autori?
Lui insegna in carcere quindi non può portare subito Baudelaire, Majakovskij, per non parlare di Dante. Abbiamo scelto dei testi abbastanza comprensibili per i detenuti: Alda Merini, il nostro classico Bodini. In più qualsiasi poesia avessi scelto uno avrebbe detto manca quella, manca quell’altra, quindi abbiamo scelto quasi a caso. Sono poesie che mi piacciono, ma non hanno proprio un senso e come se lui in quel momento per caso avesse deciso di leggere quella poesia. Il cinema è fatto di momenti della vita che non dovrebbero essere noiosi. Piuttosto sono importanti le poesie che scrive il protagonista Pati Rrunza che sono abbastanza assurde.
Queste poesie le avete scritte voi?
Si, come se le avesse scritte lui. Riguardano la sua vita poiché inizia un percorso di rivisitazione della sua esistenza e non vuole più fare il bandito perché in una rapina ammazza un cane. Quindi in tutte le poesie c’è questo cane: il cane che vola, il cane con le ali e pubblica queste poesie in un libro, Pensieri con le ali, grazie al sindaco che è un editore. E le poesie sono buffe una per esempio è dedica a suo fratello, a volte i congiuntivi sono sbagliati. Io ho un sacco di libri che mi mandano i carcerati: quando ho fatto film come Sangue vivo e Galantuomini spesso i carcerati li vedevano, specie i Salentini e anche se prendevo un po’ in giro questi tipi di personaggi erano tutti contenti e mi mandavano i loro libri; avendo molto tempo, molti scrivono libri. Poi ho incontrato l’editore Cosimo Lupo che mi ha raccontato la sua amicizia con Salvatore Padovano, un mafioso molto famoso della Sacra corona unita detto Bomba; controllava tutto il traffico di stupefacenti di Gallipoli, ed è stato ammazzato da suo fratello. Lui aveva scritto un libro che mi ha dato Cosimo, il suo editore, Da Ciano all’undici settembre, dove Ciano è il soprannome di un suo amico in carcere. Un libro un po’ strano, difficilissimo da leggere, un libro assurdo. E da qui ho avuto l’idea dell’editore.
Hai mai pensato di entrare in politica?
No, mai. Mi è stato proposto un sacco di volte dai Comunisti, dai Verdi, anche da quelli di destra. Ed è buffo che in Italia non ti chiedono che cosa pensi, quali sono le tue idee, dicono: «va beh, tu hai fatto quattro film, sei conosciuto qualche voto lo prendiamo» e mi è capitato a livello provinciale, comunale, regionale, senza capire in cosa credo, quali sono i partiti che ho votato. Io credo molto nella politica, per me è una cosa molto importante. In Italia continuiamo a parlare male della nostra politica; giustamente un po’ ci sentiamo esenti da ogni difetto perché tanto la colpa è di Renzi, D’Alema, Berlusconi, di chiunque.
Io invece penso, e questo è uno dei temi del film, che bisogna compiere il proprio dovere di cittadino a prescindere dalla fede politica e spesso i partiti sono come delle squadre. Per esempio nel film ho chiesto di far parte del cast del consiglio a Dario Stefano di Sel e Paolo Perrone (il sindaco di Lecce di centrodestra, ndr), tra l’altro a parti invertite, uno era di destra e l’altro di sinistra. Il senatore Stefano in quei giorni non ha potuto, ma mi ha detto che gli sarebbe piaciuto; invece Paolo Perrone lo ha fatto ed è molto spiritoso devo dire. A me piacciono le persone che fanno bene il loro dovere; a volte conosco persone di sinistra che sono più di destra di alcuni che stanno nei partiti conservatori o di destra e viceversa. La politica mi interessa molto, ma non sarei capace di fare politica non sono bravo a parlare.
Comunque penso di fare un po’ politica. Negli anni 90 lavoravo molto per la rinascita culturale salentina, come la pizzica. Poi mi sono occupato di ambiente, le cooperative, gli eco-mostri, a volte ero velleitario, dicevo delle stupidaggini, però ero sempre attivo. Fino a tre anni fa facevo parte di dieci o undici associazioni, non ero solo membro, ero presidente, vice presidente: presepe vivente di Tricase, proloco di Depressa, Coppula Tisa, sono stato presidente per 4 anni di Cuore Amico, Fai, carnevale di Corsano, un sacco di cose che se le racconto a uno di Roma o di Milano piange di tenerezza, di compassione. Però per me anche quello fa parte della vita in comune.
Uno dei temi del film è la religione, come s’inserisce all’interno della storia?
Penso che la religione in Italia è qualcosa che ha un valore identitario, sono cattolico in quanto mi contrappongo ad altri e la fede è spesso fideistica, non c’è coscienza. Però se uno ha veramente fede io ne ho seriamente stima. Ti parlo da cristiano con dubbi. Sono sincero prima credevo in Gesù sei giorni a settimana ora la metà, non lo so veramente. Nel film sono un po’ dissacrante perché il bandito che cerca di fare la rapina ha il mito della mafia ed è un grande devoto del papa, infatti, è una figura molto importante nel nostro film e non è una contraddizione. Da un lato serve come rituale per sancire un patto di sangue con i santi e le madonne, dall’altro credono «sono in carcere, ho commesso dei crimini ma in fondo sono una brava persona perché sono stato quasi costretto a farlo, vengo da questa famiglia. Poi mi confesso chiedo perdono, il signore mi conosce».
Un protestante non penserebbe mai così e questo è tipico di un certo tipo di cattolicesimo italiano. C’è anche un po’ di affetto non solo dissacrazione perché la religione in questi paesi è anche un collante sociale se non ci fosse sarebbe un problema poiché la parrocchia è il luogo dove i bambini giocano, si organizzano un sacco di cose. Poi c’è il cattolicesimo sociale, trasversale perché tu puoi essere un catto-comunista, catto-fascista, catto-forzaitaliano, un catto-socialista. Questa secondo me è la componente più italiana che abbiamo.