Nello specchio rosso della Cina, Simone Pieranni osserva l’immagine speculare del capitalismo occidentale. Quello autoritario del partito comunista cinese è raccontato in Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, pp. 168, euro 14), battente reportage saggistico che spiega le origini della pianificazione statale di uno sconfinato dinamismo produttivo che ha trasformato il continente-stato «rosso» da fabbrica del mondo a hub tecnologico del capitalismo della sorveglianza. Questo è il racconto dell’adattamento graduale dello Stato-imprenditore socialista alla strategia finalizzata alla conquista di una posizione dominante sul mercato mondiale in concorrenza con quella degli Stati Uniti.

SE MARX nel Capitale scrisse che il capitalismo occidentale è guidato da quattro valori – «Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham», ora sappiamo che quello cinese è ispirato al controllo, alla disciplina e alla morale neo-confuciana. «Arricchirsi è glorioso»: è la sintesi di questa realtà. È lo slogan lanciato da Deng Xiaoping negli anni Ottanta del XX secolo e capace di delimitare un perimetro ideologico, e antropologico, contiguo a quello dell’homo oeconomicus o self made man occidentale. All’interno di questo perimetro ideale è avvenuta la trasformazione di un popolo di contadini e operai in capitalisti personali e di Stato.
Il rapporto speculare usato per descrivere la Cina, e parlare agli occidentali, è l’applicazione del metodo usato da Giovanni Arrighi nel memorabile Adam Smith a Pechino (Feltrinelli). Da quarant’anni la Cina riesce ad applicare quello che i neoliberisti occidentali vorrebbero fare, ma non possono, per le contraddizioni create dalla crisi del modo di produzione e dal suo rapporto con il neoliberalismo. La democrazia liberale formale è stata svuotata, mentre il patto «socialdemocratico» che ha distribuito in maniera diseguale la ricchezza per un trentennio è stato cancellato. E tuttavia, oggi più che mai, i nostri eroi non riescono a garantirsi una continuità dei profitti.

L’OPPOSTO è accaduto in Cina, almeno prima del coronavirus, in un paese dove lo Stato è il garante di un patto capitalistico che ha trasformato la società in un laboratorio della produzione e la produzione in un ideale storico ritenuto necessario per realizzare un «socialismo con i tratti cinesi», un’economia di mercato «socialista», insomma un comunismo immaginario che giustifica l’ideologia ufficiale attraverso l’istituzione di un capitalismo assoluto.

SI SPIEGA COSÌ L’INVIDIA di Mike Moritz, un venture capitalist di Sequoia Capital che ha finanziato il fiore all’occhiello dell’industria tecnologica americana come Apple, Cisco, Paypal, YouTube. In un editoriale sul Financial Times scrisse nel 2018 che la Silicon Valley sarebbe ossessionata dalle discussioni sulle disuguaglianze. In compenso Moritz sosteneva di ammirare la Cina perché i dipendenti lavorano per 14 ore sei o sette giorni alla settimana. Ecco il punto: il sogno dell’autoritarismo sociale, o della dittatura, per annientare il conflitto di classe che tuttavia resiste, il dialogo ermeneutico pluralistico sulla scienza, l’autonomia non imprenditoriale dell’esistenza.

IL SOGNO DELL’EFFICIENZA, e del decisionismo sullo stato di eccezione, ha attraversato il campo della gestione della pandemia indotta dal coronavirus Covid 19: è più efficiente la gestione «totalitaria» cinese o quella «democratica» occidentale? In una pandemia, le cui dinamiche erano all’inizio per di più sconosciute, esiste una gradazione nell’applicazione di uno stato di emergenza continuo. Anche qui è spuntato il fantasma del potere assoluto, identificato con una presunta efficienza che, in fondo, non è altro che quella di un mercato oggi devastato dalla recessione globale.
Per comprendere il rapporto speculare, dialetticamente rovesciato, tra Cina e Occidente Pieranni invita a osservare come il «capitalismo di sorveglianza» abbia avvicinato le due principali potenze. Cina e Usa stanno indicando una strada che sarà bene o male seguita dal resto dei paesi. La differenza tra il modello cinese e quello americano/occidentale è la seguente: nel nostro mondo i dati sono gestiti da aziende che li utilizzano per fini privati, mentre in Cina è lo Stato a disporre delle informazioni. Questa opposizione risponde in realtà a due modelli di organizzazione del capitalismo, in culture e società classiste diverse.

LE MINUZIOSE descrizioni dei progetti infrastrutturali, o delle smart city, come quelle di applicazioni sconosciute, ma onnipresenti ed efficienti in Cina, potrebbero delineare un futuro da Grande Fratello. L’immaginario capitalista è pieno di catastrofi, collassi e distopie che possono essere usate per descrivere l’applicazione di massa di videocamere, sistema di crediti sociali, controlli a distanza dispiegati in Cina. Pieranni avverte però che questa non è una distopia, ma il concreto funzionamento di un capitalismo che usa gli stessi strumenti, anche se in una gradazione diversa che dipende dal contesti politici e dai rapporti di potere.
È un’osservazione cruciale per liberarsi dalla paccottiglia ideologica che circonda i discorsi sull’innovazione, mostrando invece che i sistemi di valutazione, classificazione e di comparazione che vediamo nella serie Black Mirror e sono applicati in maniera sperimentale in Cina, come negli Stati Uniti. Questa, poi, è la realtà quotidiana di chi usa uno smartphone.

L’ACCREDITAMENTO sociale è l’altro volto dell’ideologia della meritocrazia, letteralmente il potere di dare un prezzo a ogni aspetto dell’esistenza trasformata in un capitale umano. Anche in questo caso, scrive Pieranni, è necessario conoscere l’uso statale della meritocrazia fatta in Cina per capire come le nuove tecnologie permettono di prendere strade rischiose anche nell’economia reputazionale dall’altra parte del mondo. E come il mercato già pratichi queste strade espropriando la privacy e il plusvalore della nostra forza lavoro sulle piattaforme pubblicitarie di uso più comune. Per comprendere gli intrecci tra Stato e mercato nel nuovo capitalismo è consigliabile abbandonare le vecchie contrapposizioni ideal-tipiche e adottare la sottile dialettica usata da Pieranni nel suo metodo «speculare».

Questo punto di vista materialistico, questo metodo, può essere applicato all’analisi dei settori di punta della nuova «Via della Seta» cinese: la geo-economia dell’intelligenza artificiale, la competizione sull’innovazione tecnologica e di prodotto, il dominio sulle infrastrutture e sugli investimenti nella ricerca.

CIÒ CHE RIVELA questo libro è che viviamo in un mondo in formazione, profondamente contraddittorio, fondato su rapporti di forza, non su un potere assoluto unilaterale. Decisiva è l’osservazione per cui nel sistema cinese il sogno del soluzionismo digitale è accompagnato da un’economia della corruzione. Di solito l’efficienza tecnologica, o la meritocrazia, sono salutate tra i capitalisti come una liberazione dalla corruzione e dalla burocrazia. È l’opposto: sono straordinari moltiplicatori di vincoli e problemi. «In Cina – scrive Pieranni – convivono molti sistemi, diversi approcci, anche in apparenza l’uno il contrario dell’altro». Se oggi torniamo a parlare di potere, partiamo allora dal suo essere un ibrido relazionale attraversato da conflitti reali e potenziali.