Wojtek Smarzowski occupa un posto nel cinema polacco di oggi, forse paragonabile a quello di Paolo Virzì in quello italiano. Se azzardiamo un paragone è soltanto per collocare meglio un cineasta che meriterebbe maggiora visibilità lontano dal proprio paese. Le sue commedie sono popolate da figure che rasentano il grottesco: ultras xenofobi, parroci corrotti, parvenu di provincia, poliziotti disonesti. Nei suoi film la vodka scorre a fiumi, sempre e comunque, anche nei film più drammatici. Anche se Drogówka (Traffic Department, 2013) contiene un riferimento al bunga bunga di berlusconiana memoria, i suoi film prendono di mira soprattutto usi e costumi della Polonia di oggi. E forse, anche per questo motivo, non risultano facilmente esportabili.

A chi non avrà mai la possibilità di partecipare ad un matrimonio nel Paese sulla Vistola, si consiglia almeno la visione di uno dei suoi due film intitolati Wesele per cogliere, sotto deformi spoglie, l’essenza di uno degli elementi definitori dell’essere polacchi. Le sue pellicole si concludono spesso con una ripresa dall’alto che si alza progressivamente sui personaggi. Figure che si fanno sempre più piccole come in un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio. E lo «stile Smarzowski» che mostra la pochezza umana con mezzi strettamente cinematografici e con dovizia di particolari. Ma esiste anche un «metodo Smarzowski» che abbiamo provato a definire nella nostra intervista con il cineasta polacco.

Né un remake né un secondo capitolo, perché ha deciso di girare un’altra versione di «Wesele»?
Quasi 125 anni fa Stanislaw Wyspianski aveva scritto un dramma intitolato Wesele «Le nozze», sulle aspirazioni dei polacchi all’indipendenza (portato anche sul grande schermo da Andrzej Wajda nel 1972 ndr). Un secolo dopo ho realizzato le «mie prime nozze» per il cinema in un momento in cui la libertà della Polonia era ormai una condizione acquisita ma i nostri valori come nazione erano ancora tutti da recuperare. Per le mie ultime nozze invece ho scelto di girare un film sul recupero della memoria e sugli ebrei che vivevano nel nostro paese prima della seconda guerra mondiale.

Davvero non le piace rivedere i suoi film come ha dichiarato in una recente intervista per il quotidiano «Gazeta Wyborcza»?
In generale preferisco guardare i film degli altri quando non sono impegnato a girarne di miei. Sono affascinato dai cineasti che fanno un cinema che non ho mai voluto o saputo fare con le mie forze: Lynch e Jarmusch, almeno quelli degli esordi, in parte Von Trier, Kim Ki-duk, Bela Tarr ma la lista dei nomi potrebbe essere molto più lunga.

Com’è cambiata la Polonia negli ultimi vent’anni?
Non è più lo stesso paese di prima. Da qui anche l’esigenza di raccontare nuovamente una festa nuziale in un contesto completamento diverso. Nel primo Wesele si parla di auto rubate e targhe contraffatte, quasi delle marachelle rispetto a quello che si vede oggi. Il mio nuovo Wesele invece affronta temi importanti collegati tra loro come manodopera a basso costo, immigrazione e lavoro nero.

E possibile toccare argomenti del genere sul grande schermo senza essere bollati subito come «anti-polacchi»?
Io amo il paese. E proprio per questo motivo che faccio dei film che ne affrontano i mali. In questo momento la Polonia viaggia in direzione dell’autoritarismo. La televisione pubblica TVP del Signor Jacek Kurski (il numero uno di TVP ndr) funziona in modo molto simile alla propaganda putiniana, non soltanto per le notizie false ma perché prova a costruire una realtà parallela.

Da un punto di vista della stile «Róza» e «Wolyn» sono due film di svolta nella sua carriera. In cosa è cambiato il suo modo di fare cinema negli anni?
Innanzitutto, con il tempo che passa, sono io a cambiare e a invecchiare. E poi ci sono anche i film che ho realizzato che contribuiscono a rendermi diverso da ieri. Con gli anni mi sono messo a giocare sempre più spesso con diversi piani temporali. Oltre all’utilizzo dei flashback ho preso gusto nello spezzare la linearità temporale del racconto.

Un altro cineasta polacco, Xawery Zulawski, mi ha raccontato che la società polacca è sempre più divisa al suo interno. E d’accordo con questa valutazione?
Assolutamente sì. Il responsabile principale di questa divisione e Jaroslaw Kaczynski, numero uno del partito della destra populista di Diritto e giustizia (Pis). La situazione si sta deteriorando giorno dopo giorno. Il partito al potere punta a politicizzare tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana: dalle aule di tribunale, passando per l’istruzione fino al settore della cultura.

Esiste un «metodo Smarzowski»?
Mi piace partire da una situazione semplice, ai limiti del buon gusto, prima di addentrare il pubblico in una realtà più complessa che fa passare la voglia di mangiare popcorn. Devo sempre avere un’idea precisa del finale del film che voglio fare prima di cominciare a scrivere una sceneggiatura. I film fanno parte a pieno titolo della cultura popolare e pertanto svolgono una funzione educativa. Con i tempi che corrono i manuali scolastici sono sempre più a uso e consumo della classe politica del paese.

«Róza» sembra un film western morale «senza pistole». In che cosa è diverso dagli altri suoi film?
Non mi piace suddividere i film in generi ma piuttosto separare il cinema «buono» da quello «cattivo». Ogni spettatore è libero di interpretare le mie pellicole come preferisce. Róza è un film diverso da quello che avevo realizzato fino a quel momento per due motivi: non ne ho scritto la sceneggiatura e la fotografia del film di Piotr Sobocinski Jr ha una tessitura regolare, pulita, senza immagini disturbate o a bassa fedeltà, tipica dei miei altri lavori.

Come ha scoperto il cinema?
Sono cresciuto a Jedlicze, una cittadina della Precarpazia nella Polonia sud-orientale, non lontano da una raffineria. La squadra di calcio con cui mi allenavo la mattina si chiama «Nafta», così come il cinema in cui non mi perdevo neanche un film nel pomeriggio. Tutte visioni facili e distratte, fino a quando un bel giorno negli anni del liceo non mi sono imbattuto in Quarto potere che mi ha provocato non pochi giramenti di testa.

E lo Smarzowski di oggi invece cosa preferisce guardare?
Mi piace il cinema polacco degli anni Sessanta e Settanta, i film cecoslovacchi di Forman e Menzel, quelli di Coppola, Altman. Ho un debole per il cinema romeno contemporaneo. Ultimamente mi ha entusiasmato su Netflix, Apan, un thriller svedese diretto da Jesper Ganslandt.

Che giudizio ha del cinema polacco contemporaneo?
Dipende dai punti di vista. L’Istituto polacco di cinema (PISF) è sempre più politicizzato. Da quelle parti ormai i finanziamenti per i progetti incentrati sugli aspetti scomodi della realtà polacca non si trovano mai. D’altro canto, i cineasti di valore non mancano adesso: mi vengono in mente i nomi di Malgorzata Szumowska, Jan Pawel Matuszynski, Piotr Domalewski. Chiedo in anticipo scusa per tutte le omissioni. Anche i registi nati qualche anno più tardi se la cavano bene. E che si diano da fare per girare dei film!