Martedì 5 e giovedì 6 ottobre alle 17,30 all’AncheCinema di Bari (corso Italia 112), il Festival delle Donne e dei Saperi di Genere (ideato e diretto da Francesca R. Recchia Luciani) porta in Italia Amandine Gay, regista e scrittrice afrofemminista francese per la proiezione dei suoi due film: Ouvrir la voix (Ad alta voce, 2017), sull’intreccio tra sessismo e razzismo verso le donne nere che vivono in Francia, e il recentissimo Une histoire à soi (Una storia tutta per sé, 2021), sulle adozioni interraziali.

Passato in anteprima al Cph:dox di Copenaghen, quest’ultimo documentario è in sala oltralpe contemporaneamente all’uscita per le edizioni La Découverte del potente saggio autobiografico che Amandine Gay ha dedicato allo stesso tema, Une poupée en chocolat (Una bambola di cioccolato). Le proiezioni saranno introdotte dalla sociologa Sara Garbagnoli e seguirà in entrambi i giorni un dialogo tra la regista, il montatore e produttore Enrico Bartolucci e le studiose Giulia Colaizzi e Marie Moïse.

A trentasei anni, Amandine Gay è una donna dalle mille vite: ex promessa del basket, attrice satirica, cineasta e produttrice con la «Bras de fer» creata con il compagno. Nel suo libro scrive di sé: «il mio lavoro di regista-autrice-attivista consiste nel raccontare, documentare e conservare le storie e le realtà contemporanee di coloro che di solito spariscono più facilmente dalla Storia – che si tratti delle donne nere, delle persone adottate o di qualsiasi altro gruppo costruito come minoritario e invisibile». Il suo primo film, Ouvrir la Voix, raccoglie più di venti testimonianze che, riportando i condizionamenti subiti per l’essere donne e nere, rovesciano stereotipi e una concezione bianca di universalismo. Attraverso la scrittura e il montaggio, il film esprime la consapevolezza che riconoscere l’intreccio tra personale e politico è una delle condizioni di possibilità per il cambiamento sociale.

Questa stessa logica è all’opera in Une histoire à soi, una tessitura di cinque testimonianze in voce off su un repertorio di fotografie, disegni, lettere, film di famiglia che affronta l’adozione transnazionale tenendo conto della geopolitica, dell’eredità coloniale e delle sue mitologie. Cosa significa crescere da persone non bianche in una famiglia bianca, in un paese in cui chi ti somiglia sta ai margini? Cosa significa essere percepite come straniere e non esserlo? Quali effetti produce l’essere ribattezzati al momento dell’adozione, nascere Joohee, Niyongira, Chandralata e diventare Justine, Nicolas, Céline, dover fare tabula rasa di un passato che per quanto misterioso non è meno presente nel cuore e nella mente? «L’adozione è una fabbrica di fantasmi», dice Mateus-Mathieu, una delle voci del film che per anni si è domandato: chi era mia madre? Cosa le è accaduto? Perché sono qui e non con lei?

Amandine Gay costruisce un dispositivo cinematografico su due livelli: da una parte ci sono gli archivi delle persone adottate e la loro presa di parola sul razzismo, sul sentimento d’esilio, sull’essere in bilico tra due mondi («bianca dentro e non bianca fuori» dice Joohee). Dall’altra c’è l’archivio di cinegiornali che calano le loro esperienze nel contesto più ampio di una storia delle adozioni dal secondo dopoguerra a oggi. Un lavoro che permette, per esempio, di richiamare alla mente la partenza verso gli Stati Uniti di bambini poveri del Sud Italia negli anni Cinquanta o di bebè resi orfani dalla guerra in Vietnam.

La sequenza di un reportage del 1959 conservato dalla Gaumont Pathé rievoca la storia di Filomena Guastafierro, vedova e madre di otto figli a cui il Comitato americano pro-orfani ed emigranti propose del denaro in cambio di due dei suoi figli. Ricontestualizzati, i repertori mostrano che le vittime bisognose sono talvolta costruite come tali dal potere che poi si legittima attraverso il soccorso. Il film smonta la retorica umanitaria asservita all’imperialismo ed evidenzia l’uso dell’adozione come business, come strumento di guerra e di propaganda politica. Via zoom, la regista ci racconta: «ho riproposto le immagini dell’‘orfanella Ann’, la bimba cinese adottata nel 1949 da un GI americano per ‘salvarla dal pericolo rosso’, così da metterne in luce la violenza. Ci si domanda se più che salvata quella piccola non sia stata sradicata e ‘deportata’ in un paese straniero che l’ha sacrificata sull’altare dell’anticomunismo».

Une histoire à soi osserva l’impatto delle relazioni di potere e delle rappresentazioni nella vita intima come nel caso di Nicolas-Niyongira per cui la guerra in Rwanda dà avvio a una crisi con la famiglia adottiva: «davanti alle immagini di quel conflitto, lui che era tutsi si sentiva grato ai genitori adottivi ma allo stesso tempo temeva per i famigliari rimasti nel villaggio di origine. Poi, quando ha studiato le ragioni della guerra e compreso le responsabilità storiche della Francia ha provato un dolore e un senso di rivolta che lo hanno spinto a tornare in Rwanda e a riscrivere i propri legami includendo nella sua costellazione affettiva i parenti rimasti in Africa. Tutte le storie del film pongono in termini politici la questione di chi ha diritto a fare famiglia e ripensano le relazioni rompendo le gerarchie tra legami biologici e non».

Il cinema e la scrittura sono per Amandine Gay spazi in cui far incontrare la propria biografia di persona nera adottata da una famiglia bianca con vicende legate ma molto diverse tra loro. Film e libro sono nati come esito di una tesi di specializzazione in sociologia sulla mobilitazione transnazionale delle persone adottate. Se il film dà la parola alle storie altrui, il libro, documentato e coraggioso, è anche un’auto-socio-analisi alla prima persona che nel segno di Audre Lorde, bell hooks e Colette Guillaumin, trasforma dolore e collera in parola e azione. Alla soglia della maggiore età, infatti, l’autrice si è trovata ad affrontare il conflitto tra la volontà di conoscere le proprie origini e il diritto all’anonimato della madre: «Sono figlia di una ragazza marocchina che ha rinunciato a me pur di continuare a studiare e che forse era stata violentata.

Si pensa che l’anonimato sia una garanzia per la libertà delle donne di farsi una vita ma non si può dimenticare che quel diritto è nato nella cornice di politiche nataliste e antiabortiste che ora tornano in auge nelle retoriche reazionarie di vari paesi, dalla Francia agli Stati Uniti, basti pensare a quel terribile film di propaganda che è Unplanned – La storia vera di Abby Johnson (2019). Il vero problema è la mancanza di giustizia e di rispetto per i diritti riproduttivi, la solitudine e la precarietà delle donne che scelgono di separarsi dai loro bambini. L’afrofemminismo mi ha aperto gli occhi e permesso di superare la rabbia che provavo per essere stata abbandonata».

Per di più, Une poupée en chocolat è una risposta al suicidio di Stanislas, un amico d’infanzia anche lui adottivo: «quella tragedia mi ha fatto capire che era ora di affrontare il problema della salute fisica e mentale delle persone adottate. L’alto tasso di suicidi e di comportamenti autodistruttivi in questa popolazione è una questione politica. Io stessa ho iniziato molto presto ad abusare di alcol e droghe quando ho scoperto che mi permettevano di non pensare. Mi ci è voluto un percorso di guarigione, di terapia, di meditazione, di studio e di attivismo per sentirmi abbastanza solida da affrontare il problema tanto più che appartengo a due gruppi sociali su cui pesano molte aspettative: sono una donna nera, e si pensa che come tale io debba essere forte e combattiva, e sono adottata quindi dovrei essere grata di essere stata salvata.

Invece anche io, pur essendo stata amata, ho sofferto. Dobbiamo parlarci, risalire alle genealogie dei concetti teorici, imparare dagli errori del passato e costruire ponti tra le lotte. È un processo che abbraccia diverse generazioni perché i traumi si trasmettono nel tempo ma lo dobbiamo alle persone giovani, a chi verrà dopo di noi»