I risultati, da un exit poll all’altro, oscillano un po’, ma la sala da ballo è sempre quella è certo non è il locale di lusso al quale Silvio Berlusconi era da vent’anni abituato. Dunque le bocche restano cucite. Chi si fa scappare una frasetta a mezza bocca o si accontenta e gode, come Rotondi ( «Il 18? Poteva andare peggio») oppure, come Toti, filosofeggia: «Ma tra il 17 e il 20% c’è davvero tutta questa differenza?». Poi naturalmente ci si può consolare con l’aritmetica, che è cosa ben diversa dalla politica, e raccontarsi che in fondo sommando i voti dei partiti partoriti dalla deflagrazione del Pdl (Fi più Ncd) il risultato è migliore di quello del 2013. Giusto per giocare con le cifre, gliazzurri possono anche provare a rinfrancarsi dicendo che, mettendo insieme tutte le liste di centrodestra, almeno ci sarebbe la certezza di giocarsi la partita delle elezioni politiche, persino con l’Italicum.

Ma la politica non si limita all’aritmetica e politicamente la mazzata è devastante. Per Forza Italia, il 17% equivale a uno stato di declino ormai solidamente avviato. Il distacco tra Fi e M5S, inoltre, sottrae a Berlusconi lo strumento sul quale contava per reclamare l’ingresso al governo, l’emergenza democratica» incarnata dal nipotino di Hitler-Stalin-Robespierre-Pol Pot. Nuvoloni carichi di pioggia anche sul fronte del risultato di Alfano. Per Fi era essenziale che i «traditori» dell’ex delfino non varcassero la soglia di sbarramento: il recluso di Arcore avrebbe così potuto quasi automaticamente accreditarsi i voti dispersi dei transfughi e, soprattutto, Alfano non avrebbe avuto scampo, sarebbe stato costretto a battere lui per primo i pugni sul tavolo per imporre l’ingresso di Fi nella maggioranza e al governo, il vero obiettivo che Berlusconi perseguiva in queste elezioni.

Certo, anche Angelino ha ben poco da sorridere, e infatti i suoi non sorridono e neppure parlano, limitandosi a proclamare la certezza in risultati migliori quando la virtualità degli exit si trasformerà nella concretezza dei risulati reali. Ma se dovessero restare al palo della forbice compresa tra il 4 e il 4,5%, difficilmente potrebbero credere alla favoletta che comunque non esiteranno a raccontare oggi, quella secondo cui per un partito neonato basta passare la soglia per stappare lo champagne.

Anche sul fronte della ricostruzione del centrodestra unito e dunque competitivo, per il leader azzurro c’è una spina nel fianco, e di quelle acuminate. Il solo partito che a destra può legittimamente cantare vittoria è la Lega. «Se saremo davvero il quarto partito, la cosa avrà del miracoloso», commenta Salvini, e non si tratta di iperbole. Data per scomparsa pochi mesi fa, la Lega si avvicina al 7%, pur essendo presente in mezzo Paese, e in più si afferma come sponda italiana dell’onda anti-Ue, ma anche xenofoba e tendenzialmente razzista, che impazza nel continente. Allearsi con un Carroccio confortato da questi risultati si rivelerà per Fi molto più difficile di quanto non fosse l’antica e, dopo il ribaltone del ’94, ben consolidata amicizia con Bossi.

Ma l’aspetto peggiore di un risultato che può definirsi solo disastroso (anche se Berlusconi in prsona ha ordinato di camuffarlo attribuedolo ai legacci che gli avrebbero impedito di competere alla pari) è il trionfo di Renzi. Nel corso della campagna elettorale, Berlusconi si è reso conto di essere finito in una trappola mortale accettando il patto con Renzi senza entrare nella maggioranza. Progettava di uscire dal vicolo cieco costringendo il ragazzaccio ad allargare la sua coalizione anche al partito azzurro, sapendo di poter adoperare come strumento di ricatto l’impossibilità di varare le riforme senza il sostegno di Fi al Senato. Con alle spalle una vittoria come questa, Renzi avrà in pugno un’arma ancora più micidiale: sarà lui a tenere costantemente sotto tiro i cofirmatari del patto del Nazareno, minacciandoli di imporre elezioni politiche che finirebbero Fi e renderebbero ancora più solido lo scettro nelle mani del golden boy. Sul fronte delle riforme Berlusconi dovrà chinare la testa. E dovrà probabilmente farlo anche quando si aprirà, e non ci vorrà molto, un capitolo altrettanto delicato: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.