«Nulla ci distruggerà, né a me, né ai nostri ministri», aveva assicurato il presidente de facto Michel Temer prima del voto con cui, il 2 agosto scorso, la Camera dei deputati aveva respinto la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione presentata dalla procura generale. Ma non è detto che i fatti continuino a dargli ragione.

Raggiunto, infatti, da una seconda denuncia per associazione a delinquere e ostruzione alla giustizia, Temer si è dovuto ancora una volta sottoporre al voto dei deputati, chiamati ieri a votare sulla nuova richiesta di rinvio a giudizio, qualcosa di inedito nella storia del Brasile.

Ma la strategia usata ad agosto – quella di voti in cambio di incarichi pubblici, leggi ad hoc e favori ai parlamentari – stavolta si è rivelata meno efficace: il mancato raggiungimento del quorum, che ha costretto il presidente della Camera, Rodrigo Maia, a chiudere la sessione e a ricominciare tutto da capo – con Temer che nel frattempo si è sentito male ed è stato ricoverato all’Ospedale dell’Esercito a Brasilia – evidenzia come il malessere nei confronti della presidenza abbia messo radici anche tra i suoi alleati.

Rischia di non bastare più, insomma, quel mercato dei voti finora portato avanti senza alcuna decenza – ieri, secondo fonti interne al Planalto, il presidente avrebbe passato l’intera giornata a ricevere deputati «indecisi» sul comportamento da adottare rispetto al rinvio a giudizio –, a cui va ricondotta anche l’ordinanza con cui il ministero del Lavoro ha flessibilizzato la normativa sul lavoro schiavo (una costante nelle fazendas brasiliane), alterando il concetto legale di «schiavitù» e rivedendo al ribasso le modalità di controllo da parte delle autorità pubbliche.

Una misura estremamente gradita alla potentissima bancada ruralista (come viene chiamato, al Congresso, il gruppo dei latifondisti e dei grandi imprenditori del settore alimentare), a cui è stato offerto in dono anche un decreto con cui viene autorizzata la conversione di multe comminate per reati ambientali in prestazione di servizi di recupero dell’ambiente.

E così, con un indice di popolarità inferiore al 4% e alle prese non solo con le accuse di corruzione, ma anche con gli attacchi sferrati dall’interno dello stesso schieramento conservatore, Temer si mantiene aggrappato al potere grazie al sostegno dell’agribusiness, l’ultimo bastione dell’esecutivo, guidato dal ministro dell’agricoltura Blairo Maggi, uno dei principali esportatori di soia del Paese e vincitore per ben due volte del Premio Motosega d’oro di Greenpeace, per i danni inferti dalle sue piantagioni in Amazzonia.

Rappresentando il 23% del Pil e il 55% delle esportazioni, il settore ruralista ha molto da guadagnare in questo scambio, puntando su un’ulteriore accumulazione di terre, sulla riduzione ai minimi termini delle aree indigene, sulla regolarizzazione delle grandi superfici invase dai latifondisti, sulla deforestazione necessaria a promuovere la produzione e l’esportazione di materie prime, sulla flessibilizzazione del lavoro nei campi, fino all’estremo di suggerire, come è arrivato a fare qualche parlamentare ruralista, di sostituire il salario dei contadini con vitto e alloggio.

E mentre un po’ per volta ottiene ciò che vuole, il settore ruralista incassa anche l’appoggio del comandante dell’esercito, il generale Eduardo Villas Bôas, il quale ha espresso una visione dell’Amazzonia assolutamente in linea con quella dei latifondisti, denunciando il controllo della regione da parte delle organizzazioni non governative internazionali, le quali impedirebbero l’avanzata dell’agribusiness e dell’attività mineraria, svuotando la sovranità nazionale a vantaggio di una sorta di internazionalizzazione della foresta amazzonica.

Strana difesa della nazione, peraltro, quella di Villas Bôas, dal momento che l’esistenza di un progetto di legge in discussione al Congresso sulla vendita di terre agli stranieri non sembra invece costituire alcun problema per lo stesso generale.