Nei giorni scorsi, l’inglese Observer e Danwatch, un gruppo di investigazione giornalistica danese, hanno pubblicato un’inchiesta sulle condizioni di lavoro delle operaie cambogiane che fabbricano scarpe e abbigliamento per i marchi Nike, Puma, Asics e VF Corporation. È successo che nel 2016 oltre 500 lavoratrici di quattro fabbriche sono state ricoverate e soltanto in Novembre ne sono svenute 360. Capannoni poco o per nulla ventilati che arrivano a 37 gradi , dieci ore di lavoro al giorno per sei giorni a settimana, scarsa o insufficiente alimentazione sono le principali cause di questi malesseri di massa. Piccolo particolare, si fa per dire: le suddette operaie percepiscono una paga mensile di circa 136 euro, mentre il minimo salariale stabilito in Cambogia è di 340 euro e la maggior parte di loro ha contratti a breve termine che vengono rinnovati se non si protesta. Dopo l’inchiesta, i quattro marchi hanno assicurato che controlleranno meglio i luoghi di lavoro e ne miglioreranno la vivibilità. Bontà loro. Non è la prima volta che brand mondiali dell’abbigliamento sportivo, e non solo, finiscono al disonore della cronaca per come lucrano sui lavoratori di paesi cosiddetti in via di sviluppo.

Tutti sappiamo che se un abito, una maglietta, una scarpa o un qualunque altro oggetto costano pochissimo, molto probabilmente o sono di pessima qualità o c’è dietro un lavoratore sfruttato. La cosa assume un aspetto particolarmente odioso quando quel sistema viene adottato per aumentare fatturati e dividendi che, poi, sono in parte investiti in campagne pubblicitarie e/o sponsorizzazioni che creano mode e desideri negli acquirenti di altre parti del mondo. Il giro vizioso diventa così viziosissimo perché da una parte si nutre di sfruttamento, dall’altra di imbambolamento. Infilarsi in scarpe o abiti fabbricati con quella logica vuol dire alimentarla. Per questo sono nate, e periodicamente ritornano, le campagne di boicottaggio che invitano a farsi due o tre domande prima di procedere a certi acquisti. Purtroppo, non sempre e non tutti hanno voglia di farsi quelle domande.
Alcuni anni fa, svolgendo un’inchiesta sulle adolescenti milanesi di buona famiglia, chiesi loro se, visto che a 15 anni avevano già girato il mondo compresi molti paesi non ricchi, si erano mai chieste se le sneaker che indossavano fossero fabbricate da bambini che, invece di studiare e giocare, erano costretti a lavorare. Su cinque, solo due mi dissero che sì, ci avevano pensato un po’ al momento dell’acquisto, ma: «Alla fine se non le compro io le compra qualcun altro. E poi sono così belle che dopo un po’ me lo dimentico. Forse da grande smetterò».

Un ragionamento così io lo chiamerei in un solo modo: menefreghismo. Il menefreghismo può nascere da egoismo, cattiveria, avidità, totale mancanza di empatia, incapacità di immaginare se stessi al posto di qualcuno che vive in una condizione più scomoda. Il menefreghista si nutre di ignoranza e di volgarità, non vuole vedere al di là del proprio interesse, pensa solo a se stesso, ritiene la proprietà privata al di sopra del bene comune, sostiene che, siccome il mondo va così, non tocca a lui cambiare le cose.
Da sempre sono convinta che il menefreghismo si apprenda in famiglia e da piccoli, cioè laddove chi dovrebbe educare trasmette quel pensiero e quegli atteggiamenti con parole, espressioni, comportamenti. Dopo, cambiare è davvero difficile, a meno che un evento o uno svelamento portino a vedere o immaginare, nel caso di certe scarpe di marca, la donna che cucendo la tomaia, infilando le stringhe, attaccando le decorazioni che stai ammirando è svenuta per troppo caldo e troppo lavoro.

mariangela.mianiti@gmail.com