Anche quest’anno il muro iperbolico dello Sferisterio di Macerata, quello che il direttore artistico Francesco Micheli al suo esordio ha definito «assurdo e bello quanto un’installazione d’arte contemporanea», è stato testimone di una stagione lirica ambiziosa, la 52°, composta di due titoli nuovi, Norma di Giovanni Bellini e Otello di Giuseppe Verdi, ovvero l’inizio e la fine del melodramma romantico, e la ripresa di un titolo di tre anni fa, Il trovatore ancora di Verdi, punto di travaso del romanticismo giovane in quello maturo. Il tema della stagione è «Mediterraneo», luogo di transiti, avventure e tragedie, crociate, crociere e naufragi, luogo di incontri e scontri tra diversi popoli, etnie e religioni: così bianchi e neri, cristiani e musulmani (virtualmente) si confrontano in Otello, spagnoli e zingari, potere e superstizione si confrontano nel Trovatore, colonizzatori e colonizzati, legami profani e doveri sacerdotali in Norma. Insomma al centro di tutto la scoperta dell’Altro, del Diverso, che, con inevitabile tratto perturbante, impone stupore, scoperta, riconsiderazione dell’identità, mediazioni, accettazione o rifiuto.

Otello, mancante allo Sferisterio dal 1999, va in scena con l’allestimento di Paco Azorin, coproduzione con il Festival Castell de Peralada e Premio Campoamor della critica spagnola. È contraddistinto da tre enormi pannelli trapezoidali che, muovendosi e modulando lo spazio scenico, scandiscono la discesa di Otello agli inferi della sua gelosia e celebrano l’astuzia luciferina di Jago. Completano il décor un enorme Leone di Venezia, simbolo del potere che Otello ha contribuito a rafforzare, e le videoproiezioni del mare, il Mediterraneo che è ragione e sostanza di tutta l’azione, e dei bozzetti del progetto scenico, che esplicitano il potere demiurgico di Jago, stratega e manipolatore abilissimo ad approfittare della fragilità di Otello. A dirigere, correttamente ma senza grandi slanci, è Riccardo Frizza. Stuart Neill, ormai a fine carriera, si disimpegna nell’impervio ruolo di Otello grazie a una tecnica impeccabile, che sopperisce all’irreversibile perdita di corpo della voce nelle note acute. Roberto Frontali (Jago) fraseggia e recita con sicurezza ineccepibile. Jessica Nuccio (Desdemona) canta con voce soave, benché troppo esile nel registro centrale, necessario per il ruolo.

Norma, è una co-produzione con il Teatro Massimo di Palermo, affidata ai registi Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi e alle scene di Federica Parolini, che si ispirano alle opere di Maria Lai, l’artista sarda famosa per le sue sculture fatte di telai e tessiture complesse, alcune delle quali collocate tra le asperità e i muri di roccia del suo paesaggio d’origine. Così Norma diviene la tessitrice del proprio destino e di un muro fatto di reti altissime, barriere, protezioni, che avrebbe voluto abbattere grazie alla sua relazione con Pollione, ma la guerra tra popoli e il demone dell’incostanza maschile le impediscono di realizzare il suo progetto di libertà. A dirigere è il trentaduenne Michele Gamba, assistente di Daniel Barenboim: purtroppo gli manca il senso del tempo, che rende l’esecuzione un monocorde adagio dall’inizio alla fine. Norma è Maria José Siri, che fraseggia con lirica franchezza, a discapito della parte drammatica (e più accesamente belcantistica) del ruolo.

Il trovatore, pietra miliare del passaggio dalla tradizione belcantistica all’opera come dramma, lontano palinsesto del futuro Otello per la messa a punto di una «tinta» distintiva dell’opera e per il rapporto fondativo tra solisti e coro, è affidata all’allestimento spoglio e sintetico di Francisco Negrin, fatto di due lunghi praticabili bassi dal profilo luminoso, che fungono da tavola, campo di battaglia, confine ecc., da una torre nera, che funge da palazzo di Aliaferia e fortezza di Castellor, e da un cavo rosso luminoso che contrassegna l’idea centrale dell’allestimento: a muovere le fila dell’efferata vicenda (con donne e bimbi arsi vivi, duelli, veleni ecc) è la madre morta della zingara. La direzione pastosa e dinamicamente ineccepibile di Daniel Oren riscatta l’allestimento dall’aura incerta e sfilacciata che ebbe al debutto nel 2013, ricordandoci che, quando è ben diretta e ben cantata, una grande opera resiste a ogni incoerenza scenica.