Il mediterraneo non è mai stato una monade chiusa e impenetrabile e i suoi confini sono sempre stati piuttosto «liquidi», evanescenti, in perenne transizione. Questa pluralità del Mediterraneo ha trovato innumerevoli etichettature – poetiche e sociologiche, politiche e storiche -, due su tutte: «lago delle culture» e «cuore liquido», quest’ultima da ascrivere al grande studioso croato Predrag Matvejevic. In effetti un mare che bagna le frontiere costiere di tre continenti è da sempre anche un florilegio di transiti culturali ed estetici, dunque anche di musiche, melodie, canzoni, nenie… per questo il Mediterraneo dei suoni, formazione storica complessa e densa come quella socio-politica, si presenta in questo senso come un’«unità nella differenza», in cui l’eterogeneo si bagna di vaso comunicanze. Sono riflessioni che in qualche modo «rimbalzavano» qualche giorno fa, tra le mura dell’Eglise Saint-Laurent, uno dei più antichi e meglio conservati luoghi di culto marsigliesi.

L’appuntamento, propiziato dagli organizzatori del festival De Vives Voix # 10+1, vedeva di scena il collettivo musicale Cie Rassegna, un ensemble ad organico mobile che esplora oramai da tre lustri le rotte della diversità mediterranea, la frastagliata varietà dei suoi repertori, le similari rifrangenze di strumenti musicali e liriche delle canzoni. Quel che rimbalzava e risuonava tra le pareti quasi millenarie di questa magnifica chiesa affacciata sul mare e sul Vieux-Port di Marsiglia, erano in effetti le note e i temi di un viaggio ideato e diretto dal chitarrista Bruno Allary, leader dei Cie Rassegna e titolare di una musicalità affamata e onnivora, capace di spaziare da una sponda all’altra del Mare Nostrum e, in questo caso, di toccare anche terre come la Gran Bretagna, il Portogallo, l’Armenia che di quel mare sono solo prolungamenti ufficiosi, pur appartenendo a tutti gli effetti a quel substrato mediterraneo «impalpabile» cui si accennava in apertura.

«Il sole non si muove» (proprio così, «leonardescamente», in italiano..) è il titolo dello spettacolo che aveva avuto solo un’anteprima estiva al festival Domain du Rayol a Rayol Canadel sur Mer e che a Marsiglia trovava la sua prestigiosa replica. Si è trattato in effetti di un sinuoso e dolce viaggio nella musica profana del XVI secolo, tra cordofoni, voci e il bellissimo suono del flauto kaval (flauto dal nome turco, suonato in tutta l’Europa orientale, dai Balcani all’Anatolia). Un viaggio non didascalico perché Allary, non ha rinunciato all’utilizzo di chitarra e basso elettrico. Si è trattato in effetti di un dosaggio così appropriato e felpato di questi due strumenti da far gridare al miracolo, tale e tanta è parsa la naturalezza con cui venivano inseriti in una collezione di spartiti di molti secoli fa. Fondamentale in questo senso il lavorio dello stesso Allary alla chitarra barocca, flamenco ed elettrica e quello di Philippe Guiraud, appunto, al basso. Intorno a questi due strumentisti altri partner ispirati come Mireille Collignon (viola da gamba), Isabelle Courroy (flauto), Fouad Didi (canto e oud), Carine Salvado (canto e percussioni) e Carine Lotta (canto). Quest’ultima è una vocalist di origine siciliana, ma tutto il parterre di nomi e cognomi dell’ensemble certificava una rosa di provenienze in grado di trasformare davvero in «biografia» le esplorazioni della loro poetica.

La scaletta del concerto attestava la stessa inclinazione. In programma brani che arrivavano dal repertorio italiano (Bartolomeo Tromboncino), spagnolo (Francisco De Salinas) e portoghese (Manuel Machado). A far da eco poi dei canti tratti dal repertorio Hawzi, forgiato nel XVI secolo nella città algerina di Tlemcen, e delle arie turche e armene ricavate dalla temperie musicale della stessa epoca. In questo gioco di rimbalzi è arrivata anche una citazione locale anticonvenzionale: un sonetto del poeta occitano Bellaud de la Bellaudiére (nato a Grasse nel 1543) trasposto in musica così come era uso in certe corti del Cinquecento. Parallelamente a questo repertorio mediterraneo e come un percorso simmetrico, un altro «programma» musicale veniva esibito e suonato. Un programma che arrivava dall’Inghilterra elisabettiana, dalle arie di John Dowland e Tobias Hume o dai «Cries» londinesi (pratica che ispirò anche Berio).

Un florilegio di suggestioni sonore che ricordava agli astanti che quella del Cinquecento fu l’epoca dei flussi e degli scambi quanto quella delle «territorialità» e che, europeo ante litteram, il musicista rinascimentale si spostava continuamente, verificando e incrociando le proprie influenze, le sonorità e i retaggi, attore consapevole di un mondo in evoluzione. Cie Rassegna ha dimostrato che quel repertorio era propizio all’improvvisazione e alla creatività e che quelle arie nordegne e meridionali al Mediterraneo, costituivano uno spazio privilegiato di confronti e sincretismi e favorivano uno sguardo nuovo su questa cultura musicale insieme mediterranea e apolide. O meglio apolide proprio perché mediterranea.