I secoli tra XI e XII sono stati fondamentali per i destini successivi dell’Europa, a partire soprattutto dalle novità sotto il profilo istituzionale. Fra queste, c’è la riforma della Chiesa, sviluppatasi a partire da quando, nel 1059, il papa Niccolò II statuì che d’allora in poi il pontefice (in quanto vescovo di Roma) sarebbe stato scelto dai soli preti dell’Urbe e dai vescovi delle diocesi suburbicarie (e di queste chiese romane e diocesi suburbicarie venivano investiti i «cardinali»); nessun ecclesiastico avrebbe più potuto accettare cariche da un laico (imperatore compreso, com’era invece nella norma); il celibato ecclesiastico sarebbe stato strettamente obbligatorio.

Negli anni appena successivi, sotto il papato di Gregorio VII, lo scontro con l’imperatore Enrico IV di Franconia sarebbe divenuto insanabile. Oltre questo, ma negli anni appena successivi, si andava delineando lo scenario propizio alle cosiddetta «prima crociata», mentre il contatto con il mondo musulmano (non c’erano solo scontri, infatti) favoriva lo sviluppo culturale dell’Occidente.

Da questo punto prende le mosse William Chester Jordan per il suo Nel nome del Signore. L’Europa dall’anno Mille alla fine del Medioevo (Laterza, 2013, 448 pp., 24 euro), sintesi della storia della seconda metà dell’età medievale. L’Europa della quale lo storico statunitense ci parla è soprattutto quella centro-nord-occidentale.

Allo sviluppo economico dell’Italia comunale riserva, infatti, poche pagine, qualcuna di più alla penisola iberica, mentre la storia del Levante crociato sembra interessarlo maggiormente. Si tratta di un punto di vista come un altro, ed è peraltro difficile essere esaustivi quando si condensa qualche secolo di storia in meno di cinquecento pagine.

È interessante anche notare che William Chester Jordan non porta la sua narrazione sino al teminus ad quem al quale siamo soliti legare, per convenzione, la fine dell’età medievale; si ferma prima della scoperta dell’America per dedicare invece maggiore attenzione al difficile XIV secolo: quello della Peste Nera, delle molte guerre, della crisi di Chiesa e monarchie. È un punto d’arrivo che ha senso perché, soprattutto rispetto alla scontro tra papato e impero con cui si apre l’epoca presa in considerazione, effettivamente il Trecento vide alcuni processi giungere a una svolta importante.

Guarda invece all’epoca precedente, rispetto a quella di William Chester Jordan, uno storico italiano, Paolo Galloni che, con La memoria e la voce. Un’indagine cognitiva sul Medioevo, secoli VI-XII (Aracne Editrice, 2013, 260 pp., euro 12), ci presenta un’opera che è antitetica, anche metodologicamente, rispetto all’altra.

Al centro dell’interesse di Galloni c’è una società nella quale la produzione di fonti scritte si fa rarefatta e le aree oscure sono più numerose di quelle chiare. Un’epoca nella quale l’oralità ha preso il sopravvento sulla scrittura e dic ui intuiamo molte cose, ma spesso non siamo in grado di provarle fonti alla mano.

Galloni è uno studioso coraggioso che non teme di spingersi in territori inesplorati. Lì dove, come la traduzione italiana del libro di Chester Jordan dimostra, si preferisce riprendere una dimensione della storia piana e narrativa, La memoria e la voce ci invita a spingerci oltre: «Gli storici del presente dovrebbero ispirarsi maggiormente agli specialisti della memoria e della parola nell’assumersi la responsabilità di ridare voci ai morti».

Di cosa parla, insomma, il libro di Galloni? In sintesi, della possibilità di applicare alcuni degli strumenti delle scienze cognitive, ossia di quelle discipline che hanno come oggetto di studio la cognizione di un sistema pensante, della mente, al fine di chiarirne il funzionamento, all’indagine storiografica. Più che la teoria, però, fa l’esemplificazione scelta dall’autore: l’apporto dell’oralità nelle pratiche scrittorie del mondo monastico; l’oralità nella materia arturiana; l’analisi delle visioni di Colum Cille e delle visioni mistiche.

Sono soltanto pochissimi esempi fra i molti possibili, perché la conoscenza che Galloni ha della letteratura altomedievale è davvero ampia e approfondita, il che gli permette di spingersi ai limiti di ciò che l’analisi storica consente, senza mai perdere il controllo del metodo. È un risultato notevole, nel quale la novità della prospettiva assunta non va a scapito dell’interesse della lettura.