«Che la rivoluzione del nuovo telefilm sia avvenuta in America non è casuale….. Oggi nelle nuove serie c’è uno spaccato della cultura americana molto più profondo di qualsiasi trattato di sociologia», scrive Carlo Freccero nella breve presentazione del Fictionfest.

E il suo spazioso/curioso programma ben riflette la straordinaria vitalità , quasi un’irrequietezza, di questo momento della storia della tv Usa, mai lontana come adesso dal format frontale, «tutto in una stanza», della sitcom, e invece proiettata in un’orbita di ricerca che spazia arditamente tra i generi, le sottoculture, l’immaginario, la politica e la storia.

Quasi una proposta alternativa di documentario (penso in particolare ai grandi affreschi alla Ken Burns, come quello sui Roosevelt in onda in questi giorni) che si offre, allo stesso tempo, come specchio e funzione critica delle realtà che ci circonda. In questo contesto, oltre ad oggetti che isolano e (ri)vedono – secondo il modello Mad Men, Sopranos, Masters of Sex– capitoli di americana, come la bellissima Man(h)attan (sul making of della bomba atomica)hanno un ruolo singolare due serie iniziate quest’anno che hanno per sfondo il Medio Oriente e di cui anche il festival romano offre un assaggio in questi giorni.

La chiave di entrambe, almeno negli intenti, è più illuminata degli squarci paranoici offerti per esempio da 24. Non a caso, una delle due arriva dagli autori di Homeland, mentre l’altra è coprodotta dal Sundance Channel, la rete tv originata dal festival di cinema indipendente di Robert Redford.

http://youtu.be/UfvKhQXC_lA

Scritta da Gideon Raff (creatore di Prisoners of War, la serie israeliana che ha ispirato Homeland, e sceneggiatore di parecchi episodi di quest’ultima) e prodotta da Howard Gordon (produttore escutivo di Homeland) per l’avventuroso canale murdochiano FX, Tyrant è ambientata in un paese a cavallo tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran degli scià.

Abbudin è governata da Khaled al-Fayeed (Nasser Faris), un despota così orrendo che suo il suo figlio prediletto, Bassam (l’attore inglese Adam Rayner), lo ha abbandonato giovanissimo per rifarsi una vita negli Stati uniti. Ribattezzatosi Barry e diventato uno stimato pediatra californiano, con moglie medico e due bambini, tutti americanissimi, Bassam, torna ad Abbudin in occasione delle nozze del figlio di suo fratello Jamal (Ashraf Barhom), il legittimo erede al trono che, insieme alla vocazione tirannica, sfoggia grande passione per amanti occidentali, macchine da corsa e gli Aereosmith. «Saddam e Gheddafi sono morti», dice a Barry/Bassam il vecchio genitore, notando il cambiamento nell’aria…..

In breve è morto anche lui e, mentre la famiglia made in Usa assapora i pro e i contro della vita in un palazzo reale, il figliol prodigo decide di fermarsi a casa almeno per un po’. In breve, la dinamica tra Bassam e Jamal al-Fayeed ricorda quella tra Sonny e Michael Corleone, con Rayner nel ruolo di Al Pacino. Solo che qui ci sono un carismatico sceicco in esilio (Mohammad Bakri) che vuole detronizzare gli Al-Afayeed, un mefistofelico zio generale a capo delle forze armate, il classico, untuoso, funzionario dell’ambasciata americana che fa il doppio gioco e la dark lady Moran Attias.

Il tutto è molto pulp, piuttosto divertente, decisamente più soap opera che PBS, a partire dalla sigla, dalle musiche, dal look (il pilota doveva essere diretto da Ang Lee, all’ultimo momento sostituito da David Yates) e dalla caratterizzazione quasi caricaturale dei personaggi. Tyrant non si può prendere sul serio… Persino il Council on American-Islamic Relations, l’organizzazione per i diritti civili musulmani, che aveva manifestato preoccupazione nei confronti della serie prima della messa in onda, ha desistito dalle critiche. Ma c’è qualcosa di perversamente disarmante, grottescamente «sincero», nell’idea(le) di un arabo con gli occhi azzurrissimi, quasi completamente americanizzato, che tenta (invano, almeno alla fine della prima stagione) di traghettare «Abbudin» verso la democrazia. È la storia infinita.
Il padrino coppoliano, un business di famiglia e la Storia sono più o meno direttamente al cuore anche in The Honourable Woman, prodotto a quattro mani dalla Bbc e dal Sundance Channel (che l’anno scorso ci aveva dato il bellissimo Top of the Lake). Il taglio qui è meno pop di Tyrant, molto più simile a quello del classico thriller politico inglese, per esempio State of Play. Con una lieve vena di pedagogia (questa sì molto Sundance), mitigata però da una spruzzata di Hitchcock. Maggie Gyllenhaal è Nessa Stein, baronessa inglese e figlia di uno dei maggiori tycoon dell’industria degli armamenti israeliana.

La serie, visivamente molto curata e piuttosto ambiziosa, comincia con Nessa recentemente entrata a fare parte della Camera dei Lord ed erede dell’impero d’affari di suo padre, un rinomato sionista assassinato quando era piccola e davanti ai suoi occhi, in un ristorante di Londra. Anche Nessa (come Bassam) è un’invenzione a cavallo tra due mondi. «Mio padre credeva che nessuna casa può sopravvivere senza muri solidi», proclama provocatoriamente in una delle prime scene del pilota… Ma intanto, sta adattando ai tempi l’impresa di famiglia – invece di armi adesso lavorano sulla comunicazione. Forse per ripulire un po’ l’immagine della Stein (viene facile il rimando a stain, che in inglese è macchia), tra le iniziative in corso c’è quella di garantire il collegamento Internet a Gaza, e sponsorizzare bambini poveri palestinesi che vogliono studiare musica.

Ma Nessa non è il prodotto idealistico dell’immaginazione generica di uno sceneggiatore liberal. Coinvolta fina dalle prime immagini in più di una morte sanguinosa, è piuttosto una figura di potere, attivamente immersa in una rete di segreti e intrigo politico, che si articolano in numerosi complicati flash back e che destano la curiosità di Stephen Rea, nei panni dell’addetto per il Medio Oriente del controspionaggio britannico. Sia nella lettura pulp di Tyrant che in quella più raffinata, molto thriller Le Carrè, di The Honourable Woman, il verdetto è uno: anche sul piccolo schermo il Medio Oriente rimane un puzzle irrisolvibile.