Prima ancora di diventare commissario politico della Brigata Garibaldi Carnia, in molti lo avevano conosciuto come «il medico dei poveri», soprannominato così per la sua estrema disponibilità. Ma, come spesso accade ai protagonisti della Resistenza, anche per la figura di Aulo Magrini «Arturo», Medaglia d’argento al valor militare alla memoria, non sono mancati i tentativi di revisionismo storico stroncati, almeno in parte, da una sentenza della Cassazione di un paio d’anni fa che ha messo al bando le versioni lontane da quelle ufficialmente riconosciute.

Era il 15 luglio del 1944 quando sul ponte di Nojaris, vicino a Sutrio, i nazisti uccisero Magrini e altri due partigiani, il garibaldino Ermes Solari «Griso» e Vito Riolino della Brigata Osoppo. Tra le voci che circolarono nel dopoguerra, si insinuò che «Arturo» fosse stato colpito dal fuoco amico. «Non ci sono dubbi su come sono andate realmente le cose – puntualizza Giulio Magrini, uno dei quattro figli di Aulo – le testimonianze dei presenti e di chi raccolse il corpo sono indiscutibili. Quel giorno i partigiani erano una dozzina e stavano cercando di fermare un’autocolonna tedesca. La borsa che aveva mio padre, nella quale conservava i soldi della brigata, venne portata via da uno dei tedeschi e fu restituita a mia madre mesi dopo, ma senza il denaro».

Giulio aveva 3 anni e rimase con la giovane mamma Margherita e gli altri fratelli. Il padre Aulo era passato a salutarli poche sere prima di quel tragico giorno. «Il ricordo che ho di lui è sfuocato – racconta – ma in famiglia e con gli amici più stretti se n’è sempre parlato molto, anche se nessuno di noi ha mai voluto sentirsi “il figlio dell’eroe”». Aulo Magrini, seguendo le orme del padre Arturo, si iscrisse alla facoltà di medicina di Padova, città nella quale maturò la sua adesione al comunismo.

«Durante una manifestazione antifascista mio padre si ferì a un polso – prosegue Giulio – . Mio nonno era un liberal radicale e per questo non vedeva di buon occhio l’inclinazione politica del figlio tanto che in quel periodo, annotò su un’agenda la frase «il bolscevismo in casa», segnandolo come uno dei momenti peggiori della sua vita».

Dopo la laurea, Aulo Magrini iniziò l’attività di medico in Val Pesarina, mantenendo uno sguardo costantemente rivolto alla comunità: «Mio padre aveva letto e studiato tanto, elaborando un po’ di idee, alcune molto attuali sulle questioni dell’economia e della società». Si recava spesso a Tolmezzo, dove conobbe la sua futura sposa Margherita, e dall’unione nacquero Ermanno, Umberto, Giulio e Fabio. Magrini rimase sempre fermo sulle sue posizioni contrarie al regime e quando si intensificarono le minacce fasciste nei suoi confronti – e arrivò un ordine di cattura – il giovane dottore si presentò al comando garibaldino, dando inizio alla vita clandestina, con il nome di «Arturo», in memoria del padre. In quei mesi immaginò un nuovo assetto politico e amministrativo per la Carnia. Come scrive Anna Di Qual in «Aulo Magrini, la vita di un partigiano» (pubblicato in Qualestoria n.2), progettava «non solo il superamento dell’apparato amministrativo fascista, ma anche dell’assetto pre-fascista».

Consapevole del rischio che stava correndo, Aulo lasciò una lettera alla moglie: «Che la ferma e calma decisione che chiunque, nelle sue pur modeste condizioni, voglia considerarsi degno del nome di uomo. Addio Margherita mia, a te e ai cari piccoli figli, in cui troverai sempre conforto e ragione di vita, di lotta, di sacrificio». Oggi, a distanza di più di settanta anni, il figlio Giulio non smette di ricordare il padre, anche ai nipoti: «Racconto loro che il bisnonno è andato nel bosco: «Andiamo a cercarlo?», chiedono. Rispondo che non si fa trovare perché è impegnato a controllare che non tornino più le guerre e ci sia la libertà di dire quello che si pensa».