Nel titolo del film dei fratelli D’Innocenzo America Latina si trova già qualche indizio: «America» come luogo dove avvengono misteriosi ed efferati fatti di cronaca e «Latina» una delle città e province italiane più disastrate tanto occupare posti molto in basso nella classifica generale secondo tutti i parametri, dall’ambiente alla qualità della vita. Basterebbe percorrere le stradine tra il mare e la Pontina per essere stregati da quel paesaggio di campi senza fine, tra rari casolari risalenti alla bonifica e la presenza sempre incombente della centrale nucleare. Nulla a parte la raccolta periodica di carciofi e cocomeri sembra poter accadere in quella terra.
Ma un gigante occupa la scena, Elio Germano, a sconvolgere le costanti del thriller e dell’horror che trovano perfetta ambientazione dove non dovrebbe accadere nulla, come un cimitero indiano o quel motel vicino alla palude (tutta palude malarica era questa terra).

TERZO FILM di Fabio e Damiano D’Innocenzo, opera matura, film dalla costruzione perfetta e compatta, allude a quei generi, ma non può appartenervi perché qui l’uso degli stereotipi è troppo sovversivo: il protagonista-dentista, ma dalla mano malferma e dalla mente offuscata, il baretto dalla luce fioca che esplode di situazioni inespresse, la presenza femminile onnipresente impalpabile in quelle vesti di mussola e pizzi, dolcezza e preludi al pianoforte. La collocazione più opportuna del film è la sua dimensione umanista, la disperata solitudine che esprime il protagonista anche se accompagnato da pochi eccellenti personaggi a cominciare dalle donne di famiglia (Astrid Casali, Carlotta Gamba, Federica Pala), Maurizio Lastrico l’amico in poche folgoranti scene, Massimo Wertmüller il padre che sputa l’anima, una ragazzina improvvisamente trovata legata in cantina (Sara Ciocca), evento inatteso che manda all’aria la costruzione idilliaca di famiglia perfetta.
La componente psicologica si fa largo fin dalle prime scene, con allusione a un certo trasporto pedofilo che accompagna l’inizio, e prosegue nel precipitare della mente del protagonista mentre affronta i suoi incubi personali, resi sempre più credibili da un uso inventivo delle inquadrature complice il direttore della fotografia Paolo Carnera in perfetta sintonia creativa.

LO SPETTATORE deve fare i conti con sottili trasformazioni, metamorfosi suggerite appunto dal quadro inusuale della ripresa, ora l’occhio a suggerire un che di animalesco, ora un grido amplificato e reso metallico dall’intervento musicale dei Verdena. Ci si allontana così dal semplice approccio psicologico che porta l’ attenzione a tutto quello che fa emergere il protagonista dal profondo per accompagnarlo verso elementi più oscuri e nascosti. Più esprime solitudine più si immerge in un elemento acquatico: all’inizio le lacrime che lasciano occhi umidi, la piscina sfiorata, il tubo della cantina da rompere a sprangare perché ne esca infine tanta acqua da portar via presenze, ricordi, vissuto. E infine un’immersione totale da mostro acquatico.

QUELL’ACQUA, ricordano i registi, di cui era fatta proprio la palude pontina, appare come un elemento malsano, malarico e non adatto alla purificazione. E la trasfigurazione della mostruosità contemporanea che continua ad essere la specialità dei loro film, qui viene risolta in maniera impeccabile.
Sono solo suggerimenti di strategia di visione poiché America Latina ha un intreccio che non si può suggerire né svelare e si dovrà vedere mettendo in funzione, come nei loro precedenti film, tutta la creatività da spettatori.