Ieri era il giorno del cosiddetto piano B di Theresa May, dopo che la settimana scorsa il piano A – l’accordo di ritiro dall’Ue da lei negoziato che dovrebbe stabilire i termini di una British Exit che scocca il 29 marzo prossimo – è stato plebiscitariamente rifiutato dal parlamento con una terrificante maggioranza di 230 voti contro.

Reduce da un weekend trascorso in frenetiche consultazioni producenti un frenetico nulla, la premier è dunque tornata davanti allo stesso parlamento per presentare la sua controproposta, sul cui contenuto le aspettative erano scettiche, vista la sofferta assenza di margini di manovra. Infatti, quanto da lei annunciato sembra fin troppo la riedizione dello sciagurato piano A, a parte forse una piccola, grande concessione intesa a smuovere la morta gora: l’annuncio che sarà eliminata la tassa di 65 sterline che i 3 milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito avrebbero dovuto pagare per poter presentare domanda di settled status, il loro riconoscimento giuridico di residenti se vogliono restare fino a dopo il giugno 2021. La mossa ha riscosso per una volta allargato consenso in aula, compresa parte dei banchi dell’opposizione.

Ma per quanto riguarda l’impasse principale nulla di nuovo, o quasi: un generico impegno a strappare altre, imprecisate concessioni all’Ue per quanto riguarda il famigerato backstop, la clausola di sicurezza che dovrebbe impedire la reintroduzione di un confine fisico fra Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, la linea che post-Brexit diverrà la frontiera tra il Regno Unito e l’Unione europea. Il backstop, che comporta la permanenza dell’Irlanda del Nord nell’Ue per quanto riguarda il commercio fin quando non si addivenga a nuovi rapporti commerciali durante i due anni del cosiddetto periodo di transizione, è inviso pressoché a tutta l’aula giacché, secondo uno dei cavalli di battaglia della propaganda del leave, limiterebbe la sovranità del Paese oltre a rischiare di mantenere indefinitamente tutta la Gran Bretagna – una e indivisibile secondo i dieci deputati del nordirlandese Democratic Unionist Party che puntella il governo – nell’Ue in mancanza di un accordo commerciale raggiunto dopo il 29 marzo prossimo. Una strada senza uscita dalla quale si era creduto la premier intendesse uscire cercando un accordo bilaterale con l’Irlanda o addirittura proponendo la riscrittura del Good Friday Agreement, l’accordo di pace siglato grazie all’intercessione dell’allora governo Blair nel 1998. Inutile a dirsi, entrambe erano le voci sono state immediatamente smentite da Dublino che per nessun motivo intavolerebbe colloqui da fuori dell’Ue.

Non è quindi dato sapere come la premier intenda superare tutti questi ostacoli, dal momento che l’Ue ha più volte ribadito quanto “il piano A” sia immodificabile: l’unica apertura minima concessa da Bruxelles riguarda il documento di accompagnamento della bozza di accordo, la cosiddetta “dichiarazione politica”, che non ha valore legale e dunque abbastanza irrilevante.

May, da parte sua, ha ancora una volta ribadito totale chiusura nei confronti di un secondo referendum, richiesto da una cospicua fetta di deputati politicamente trasversale, che necessiterebbe l’estensione dell’articolo 50. Qualunque cosa riesca ad aggiungere al suo accordo la Camera dei comuni lo voterà di nuovo martedì prossimo 29 gennaio.

Per il resto, il muro contro muro continua: alcuni deputati bipartisan vorrebbero votare sulle “linee rosse” della premier, i punti su cui non intende fare concessioni, compresa ovviamente la possibile permanenza del Paese nell’unione doganale da lai esclusa: una concessione che porterebbe a bordo molti remainer soprattutto Labour, ma farebbe ovviamente inferocire gli euroscettici conservatori.

Jeremy Corbyn, che la scorsa settimana aveva azzardato un voto di sfiducia cui May è sopravvissuta per soli 19 voti, ha a sua volta ribadito la posizione del Labour: puntare a elezioni politiche. Dopo aver accusato la premier di un inconcludente appeasement nei confronti dei Tory recalcitranti, il leader laburista ha ripetuto il suo punto fermo per potersi sedere a un tavolo col governo: l’esclusione categorica di un no deal – e gli scenari di tregenda che questo lascerebbe intravedere, con problemi di approvvigionamento di viveri e medicinali da tempo di guerra – dai possibili sviluppi. Uno scenario sempre meno improbabile mentre, l’ora zero di Brexit, le 23 ora di Londra del 29 marzo, non smette certo di avvicinarsi.