È difficile non essere d’accordo con Giorgio Frassineti, sindaco Pd di Predappio, quando afferma che «non possiamo più delegare la narrazione di Predappio ai negozi di souvenir». Sono anni infatti, e con visibilità crescente, che chi si reca a Predappio, città natale di Mussolini, viene accolto da un mercato di gadget nostalgici del ventennio, una sorta di delega «commerciale» di una memoria pubblica che appare decontestualizzata e appaltata ai nostalgici del ventennio. Da questa considerazione nasce l’idea di un museo sul fascismo da allestire proprio a Predappio con fondi stanziati dal governo – il dossier è nelle mani del sottosegretario Luca Lotti: si parla di due milioni di euro pari al quaranta per cento di costi totali. Sono necessari però alcuni passaggi intermedi come la cessione a titolo gratuito da parte dello stato della locale casa del Fascio dove dovrebbe trovare sede il museo.

L’annuncio però ha suscitato non poche polemiche e mentre l’Anpi, l’associazione dei partigiani, tiene gli occhi aperti: «la nostra presenza è volta a garantire che non ci siano aspetti celebrativi – spiega Carlo Sarpieri, presidente provinciale dell’associazione partigiani – vigileremo affinché si rispetti il massimo rigore storico-scientifico», anche cinquanta storici di 28 università e centri di ricerca italiani e stranieri hanno firmato una lettera aperta per sostenere il progetto.

Ma la questione di un museo del fascismo apre una riflessione più ampia sul senso e la pratica di una «storia collettiva», sul patto che riguarda cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato e sulla scelta di come raccontarlo. Per questo alcune perplessità rimangono.

«Non penso che si sia parlato del museo in modo corretto – commenta Serge Noiret dell’Istituto universitario europeo di Fiesole, presidente della International Federation for Public History – la discussione è nata in realtà su un aspetto che ancora non si conosce: c’è infatti una differenza fondamentale tra un approccio critico su quello che è stato il fascismo nella storia italiana e un intento celebrativo. E non si è andati a chiedere agli storici cosa sarà il museo. In generale mi sembra che si sia diffuso nella stampa una visione un po’ ristretta e caricaturale di un museo: come se, un museo, potesse solo celebrare».

«A volte – prosegue Noiret – è l’uso del termine a spaventare. Per esempio a Monaco nel 2014-2015, si è preferita l’espressione centro di documentazione sul nazismo. Si usa perché non è solo un museo ma si può accedere a fondi di archivio e a fonti bibliografiche. É necessario essere chiari su cosa si intenda per museo».

Cosa pensa Serge Noiret, studioso belga in Italia da molti anni, di un museo del fascismo?

È una cosa che ho proposto da tempo, ne ho scritto nel 2013, ma è addirittura dai tempi del mio dottorato che ne percepivo la mancanza. Da straniero mi guardavo intorno e dicevo: non c’è un nessun allestimento su un movimento e un momento così importante per l’Italia. Non c’era allora e non c’è ancora un luogo dove criticamente si possa mostrare cosa è stato il fascismo, come è nato, come ha influenzato la storia di questo paese.

Un allestimento museale realizzato da public historians significa la costruzione di un percorso narrativo realizzato da persone che hanno strumenti e visione critica dell’epoca storica da rappresentare. Il percorso museale infatti è un’altra forma di narrazione della storia, come i libri degli accademici. Un museo può mostrare il fascismo dall’inizio alle leggi antiebraiche e alla repubblica di Salò. Ma consente anche di parlare del futurismo, dell’architettura, e del primo dopoguerra.

È evidente che va fatto in modo critico. Si tratta di utilizzare la capacità di analizzare la storia e di riuscire ad allestire un percorso più completo possibile. Esiste una forma di turismo per i luoghi del passato e uno dei casi di cui ho scritto era proprio il mausoleo a Predappio: lì oggi si celebra acriticamente il fascismo e Mussolini ma il turismo del passato non sono solo i fascisti a compierlo. E cosa trova il turista quando va lì? Oggetti commerciali, parate di neofascisti o di nostalgici, veglie notturne alla cripta di Mussolini. Ci sono negozi che vendono gadget di tutti i tipi, addirittura l’olio di ricino! È invece importante fare in modo di avere proprio in quel luogo una narrativa provvista di capacità critica.

In Italia manca un museo nazionale sul fascismo e sulla sua storia non per celebrarlo, per raccontarlo. Io pensavo che si sarebbe potuto realizzare all’Eur in quei palazzi dell’era fascista con sedi decentrate, perché no, anche a Predappio. Ma Predappio non è l’unico luogo dove raccontare la storia di questo paese. Io sono andato a Cefalonia e ho cercato il monumento italiano che ricordi la ribellione della divisione Aqui ai tedeschi, fu un importante atto della resistenza italiana al nazifascismo dopo l’otto settembre del 1943. Rimasi sgomento: non c’era nulla. Il monumento ai caduti era in stato di abbandono e comunque non vi era nulla che aiutasse a contestualizzare ciò che quel monumento ricordava. Più che celebrazione del ricordo è necessario il ricorso all’analisi, e oggi la public history permette di informare sugli eventi del passato presente nel territorio.
Nel mondo anglosassone il concetto di public history è ben più noto che in Italia, e si usa per distinguere non le modalità di approccio alle fonti della ricerca storica quanto i suoi destinatari. La public history infatti si pone il problema della diffusione e della divulgazione storica attraverso i nuovi media, i social network o i musei. Si interroga e studia la percezione della storia presso il grande pubblico e propone strumenti di divulgazione proprio a partire dallo studio delle fonti e dalle ricerche che avvengono in ambiti accademici.

Il clima politico in Italia consente la realizzazione di un museo con simili caratteristiche?

Il problema è più ampio e non è legato solo al museo sul fascismo. Gli storici in genere non vengono interrogati e comunque non sono partecipi di questa discussione pubblica. Si tratta di temi che vengono studiati da tempo nei cenacoli della ricerca storica, con i pregi e i difetti di tutte le discussioni svolte tra un pubblico di soli studiosi. E questo non può essere da condannare: studiare un passato controverso è fondamentale. Anche il manifesto degli storici (a favore del museo n.d.r.) è importante: purché non sia un manifesto perché «gli altri» facciano.
Gli storici devono partecipare all’allestimento del museo e devono far si che l’elaborazione storiografica sia ovviamente alla base del percorso museale. Anche i partigiani hanno detto che in linea di principio non sono contrari ad un museo del genere. Io non penso che ci sia da fare un discorso su chi erano i buoni e i cattivi durante la seconda guerra mondiale o durante gli anni trenta, ciò che è accaduto è già acquisito sia nella ricerca storica che nella memoria collettiva. Mentre quanto accaduto negli anni venti va ancora discusso. Anche questo percorso va mostrato nel suo svolgersi. E sono queste condizioni che consentono una narrazione critica, a partire non soltanto dalla fine, dagli orrori della deportazione e della guerra a fianco dei tedeschi.
Si tratta di riuscire a raccontare il perché di un’adesione di massa, perché il fascismo sia riuscito a convincere gli italiani. Bisogna mettere in un museo quello che è il contenuto dei dibattiti accademici e dei libri di storia specialistici. Questo è davvero complesso. È necessario un posto fisico e degli oggetti perché queste cose possano essere mostrate, oltre ad aggiungervi le possibilità di approfondimento con biblioteche e, forse, archivi.
L’utilizzo delle nuove tecnologie sarebbe un fattore fondamentale in un allestimento documentario complessivo. D’altronde mai si sarebbe pensato che l’Olocausto sarebbe diventato una cosa da mostrare e sul quale costruire musei come lo «Yad Vashem» a Gerusalmme, eppure oggi i musei sull’Olocausto esistono e ovviamente nessuno di questi si sognerebbe mai di celebrarlo! Ma per allestire questo percorso sul fascismo in modo critico, serve un comitato scientifico di public historians di alto valore.

Chi sono gli attori della public history in Italia oggi?

Sono tanti. La International Federation for Public History (Ifph) insieme alla Giunta Storica nazionale italiana sta tentando di promuovere la disciplina anche in Italia. Nel maggio 2016 si terrà una costituente proprio degli enti territoriali, delle associazioni di storici, di alcuni master universitari che praticano la public history e la comunicazione della storia. La scelta è stata lasciare il termine inglese senza tradurlo, visto che in italiano assume connotazioni diverse.
Gli attori in Italia oggi sono lo Stato, le associazioni nazionali e locali, prima di tutto gli Istituti per la storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia, le società degli storici cronologiche, per esempio quella di storia medievale, moderne e contemporanea; le società storiche di settore – quella di storia digitale o di storia orale per citarne solo alcune – e quelle professionali come conservatori di musei, archivisti e bibliotecari. Il18 febbraio una conferenza nazionale del’Inmsli a Firenze (la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia) ha permesso di interrogarsi sulla comunicazione e sulle esigenze di pubblici differenti.
Queste istituzioni esistono sul territorio e lavorano per portare la storia verso diversi pubblici riflettendo anche quale sia, nell’era digitale, il modo migliore di interagire con il pubblico. Ma la public history si fa anche a scuola: per esempio la Regione toscana ogni due anni porta studenti ed insegnanti in visita ad Auschwitz con «il treno della memoria» insieme anche a professori universitari. Queste attività sono public history: insegnanti che escono dall’aula e portano un pubblico specifico, gli alunni, ad incontrare la storia nei luoghi simbolici del passato.
Lo stesso dovrebbe accadere con il museo sul fascismo: nessuna celebrazione ma un percorso formativo creato insieme da public historians e professori universitari. In questo modo l’allestimento sarà al di sopra delle strumentalizzazioni. Questo è quello che manca in Italia. Siamo alla lite su un museo quando ancora non si sa cosa sarà e cosa bisognerebbe fare per fare i conti col passato fascista e offrire alla cittadinanza uno strumento di conoscenza serio ma attento ai linguaggi per il grande pubblico. In questo senso la formazione di una associazione di public history potrebbe contribuire a fare un passo avanti dando una cornice professionale di riferimento a questa disciplina praticata da tempo senza nome anche in Italia.
Nel 2017 speriamo di organizzare il convegno internazionale della International Federation for Public History in Italia, dopo la Cina in 2015 e la Colombia nel 2016. Pensiamo anche a quale riferimento può diventare a livello europeo un museo sulla nascita dei totalitarismi nel ventesimo secolo. Lo ripeto, non si tratta di mettere in discussione cosa è stato il fascismo, quello è già stato acquisito dalla riflessione scientifica e culturale. Si tratta di far conoscere e comunicare anche alle nuove generazioni, e di rispondere ad un enorme bisogno di storia, anche di storia del fascismo.

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SCHEDA. TRA STORIA E SOCIAL MEDIA

Storico, History Information Specialist all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e presidente della IFPH-FIHP (International Federation for Public History), Serge Noiret si occupa da anni di storia pubblica e della sua trasformazione, di didattica della storia in relazione al web, di storiografia digitale e spazi on-line.
In merito, tra i suoi saggi: «Linguaggi e Siti: la Storia On Line» (1999); con Antonino Criscione, Carlo Spagnolo e Stefano Vitali, «La Storia a(l) tempo di Internet: indagine sui siti italiani di storia contemporanea» (2004); insieme a Philippe Rygiel, ha curato «Les historiens, leurs revues et Internet» (2005). Tra i più recenti: «Public History. Pratiche nazionali e identità globale» (2011) e infine con Frédéric Clavert «L’histoire contemporaine à l’ère numérique – Contemporary History in the Digital Age, Bruxelles, Bern, Berlin, Frankfurt am Main, New York, Oxford, Wien» (2013). Importante è anche l’intervento «Storia Pubblica Digitale», uscito nel n. 36 (2015) di Zapruder.