Torniamo a Rabaa al Adaweya dopo il massacro: è un inferno. Ahmed, un giovane islamista, appena uscito dal carcere, piange mentre ci mostra desolazione e distruzione. Via Nasser, strada percorsa tante volte tra le barricate costruite dai Fratelli, è irriconoscibile. Decine i blindati andati in fiamme, per strada ci sono voragini nere dove sono state incendiate vetture e auto della polizia. La moschea di Rabaa ha i segni vivi dell’incendio, l’ospedale da campo anche. Polizia, militari e uomini armati in borghese presidiano l’ingresso dove brulicavano nei giorni precedenti decine di migliaia di islamisti. La stazione di polizia a destra dell’accampamento è andata in fiamme. Più avanti le carreggiate sono state sventrate da intere camionette dei pompieri, finite nelle vetrine dei negozi.

Ma arriviamo al mattatoio, chiamato Makram Aabeid, la moschea-obitorio Imam: un antro dell’inferno. Un intenso odore di cadaveri in putrefazione è coperto da ventilatori e dal continuo ricorso a spray degli stessi parenti delle vittime. Decine sono i corpi in fila, coperti da un telo bianco e sormontati da grandi blocchi di ghiaccio per evitarne la decomposizione. Un uomo, posto sul podio al posto dello sheykh, legge una lista infinita di morte e la causa della scomparsa. Una donna e sua figlia accarezzano il capo di un giovane cadavere e piangono disperatamente. Bare di plastica e di legno passano attraverso una calca continua per entrare e uscire dalle piccole porte della moschea. Ibrahim, un medico volontario, ci spiega che «la maggior parte dei corpi riporta spari al capo, sono arrivati da Rabaa e Nahda al ritmo impressionante di dieci al minuto».
Molti di questi uomini sono morti due volte: prima sono stati uccisi dai cecchini dei palazzi o dalle cariche della polizia; poi i loro cadaveri sono stati dati alle fiamme nell’incendio dell’ospedale da campo di Rabaa. La moschea Imam non ha trovato pace. La polizia l’ha circondata nella notte di giovedì, ha arrestato alcuni parenti delle vittime e ha posto i cadaveri all’esterno per procedere alla sepoltura.
E come se non bastasse, nella terribile vigilia del «Venerdì della rabbia», il Cairo è tornata ad essere militarizzata in vista di 28 cortei pro-Morsi, che sono partiti ieri dalle più grandi moschee della città, teatro degli scontri nei giorni scorsi (Mustafa Mahmoud, Fatah, Quds, Aziz Belah, Salam, Ein Shamps). Ma anche a Suez, Alessandria, Minia, Dakhleya e Beni Suif ci sono state imponenti manifestazioni dei pro-Morsi. Negli scontri tra islamisti da una parte, esercito, polizia e giovani Tamarrod (alcuni armati) dall’altra, si contano oltre cento morti solo al Cairo (vittime anche ad Alessandria, Damietta, Tanta, Ismailya e Fayoum). Al Jazeera, i cui schermi sono stati oscurati in Egitto per il sostegno accordato a Morsi, parla di 95 morti solo in piazza Ramsis, colpiti da cecchini sistemati sui tetti. Interi palazzi sono andati in fiamme. Anche gli elicotteri dell’esercito hanno sparato sui manifestanti raccolti a Ramsis, mentre i carri-armati bloccavano il passaggio di ponti e strade.
Scontri si sono svolti intorno all’ambasciata americana a Garden City (10 morti). Mentre la presidenza egiziana criticava le dichiarazioni rilasciate da Obama ieri, che ha stigmatizzato l’uso della violenza e sospeso le esercitazioni militari annuali con l’Egitto. La Turchia ha richiamato il suo ambasciatore al Cairo dopo le critiche del premier Recep Erdogan all’operato dell’esercito. E la Francia, dopo la decisione danese, ha minacciato di tagliare gli aiuti militari all’Egitto. Invece, il re saudita Abdullah ha espresso il suo sostegno alla repressione militare.
In Egitto, militari e Fratelli musulmani si definiscono ormai a vicenda «fascisti» e «terroristi». Entrambe le accuse sono fuori luogo: i «fascisti» lasciamoli al ventennio mussoliniano in Italia, la questione del terrorismo è più complessa, soprattutto in riferimento alla matrice islamica. Di sicuro i Fratelli musulmani non sono «terroristi» nell’accezione che viene data al termine in occidente dopo l’11 settembre.
Sia gli islamisti sia l’esercito agiscono con tre condotte costanti: assenza di cultura democratica, propensione all’esasperazione nazionalistica, ricorso diffuso alle armi e alla criminalità organizzata. Non hanno radici democratiche i Fratelli musulmani che una volta al potere hanno estromesso tutti i loro avversari e riprodotto lo stesso sistema di corruzione precedente. Non è democratico il Fronte di salvezza nazionale che non ha ottenuto la fiducia elettorale, ha sostenuto un colpo di stato militare e la nomina di 19 su 20 generali a guida di altrettanti governatorati. In secondo luogo, i militari esasperano il discorso nazionalista, inglobando di nuovo gli ex uomini di Mubarak, i liberali e quello che resta della sinistra, con la retorica difesa del populismo militare, rispolverando l’immagine del salvatore della patria Nasser. Mentre gli islamisti esasperano la loro base popolare, esortandola al martirio, usandone la gratitudine per dei servizi resi dalla Fratellanza e negati dallo stato. Come se una goccia d’acqua corrente in casa valesse la vita di un figlio. Infine, entrambe le parti fanno ricorso a tutti i mezzi possibili, dai baltagy alle armi da fuoco. Ma su questo la forza dell’esercito è incommensurabilmente più grande.

I leader della vecchia generazione Hosni Mubarak e il generale Hussein Tantawi non avrebbero mai puntato sull’esasperazione delle divisioni: stato-Fratelli. Per questo il biennio passato deve essere rivisto come il falso tentativo della giunta militare di tenere nel gioco politico la Fratellanza. Le spinte dell’esercito sono andate verso la continua inclusione ed esclusione degli islamisti. Fino al punto in cui ci troviamo in cui sono tornati ad essere dei «fascisti» e dei «terroristi». Proprio mentre questi aggettivi si addicono di più alla repressione dell’esercito che alla resistenza islamista.

Più che una guerra civile è forse questo (700 morti, dieci mila arresti sommari, cadaveri bruciati e migliaia di feriti) un «genocidio»? Non ancora, per ora è un modo per disumanizzare e demonizzare gli avversari. Il segretario di Libertà e giustizia, Mohammed el-Beltagi, prima dell’inizio dello sgombero di Rabaa aveva detto che stava per iniziare la «seconda rivoluzione» egiziana dopo il 25 gennaio. Per il numero di vittime aveva ragione, ma per le responsabilità politiche questa volta si torna al dilemma dello scontro tra esercito e Fratellanza che prevede che uno dei due abbia tutto o niente: e questo nulla ha a che fare con la democrazia.