Se c’è uno scrittore che ha denunciato fino alla morte l’omologazione dei proletari e sottoproletari alla cultura borghese è senza dubbio Pasolini. L’appiattimento di valori e costumi provoca quotidianamente una tragedia antropologica, la produzione di uomo unidimensionale avrebbe puntualizzato Marcuse. Ma è qualcosa di più pervasivo: che i ceti subalterni, svestendo la cultura d’appartenenza, tendono a imitare i modelli borghesi, quelli egemoni, e iniziano a vergognarsi di essere proletari.
Si può tuttavia osare di cortocircuitare l’ordine del discorso, nel momento in cui il proletario afferma la propria identità culturale: allorché narri dei propri luoghi, in una sorta di materialismo geografico, s’incarni in quella che è il core della città, il suo quartiere, la sua periferia, la sua strada, il suo pezzo di curva, e nessuno può togliergli quel pezzo d’inferno della città, che è di converso uno spicchio di cielo che difende a denti stretti, poiché è il suo.

Quando parla della sua periferia lo fa con odio mosso d’amore, sputando in faccia alla società patinata la durezza della metropoli, la fuliggine industriale sparsa sul manto stradale, le mani callose del lavoro operaio, la ruggine dei segnali piegati da tempo e violenza, e l’anima ingessata dei colletti bianchi, dei politici in doppiopetto che attraversano la sua periferia con stuolo di reggicoda e guardaspalle per stringere mani e acquistare voti in cambio di clientele e menzogne. E l’opera prima di Giuseppe Milazzo, Fuoco ai mediocri. Romanzo ultrà (red star press, pp. 96, euro 10), è un libro duro, crudo, un pugno nello stomaco nel raccontare queste vite incarnate nel porfido metropolitano dalla tinta vesuviana, dove l’ingiustizia e il caos fungono da metronomi della tempistica delle periferie della città partenopea. La sua veridicità è appassionante e profonda.
Ma attenzione – mette in guardia Domenico Mungo nella prefazione al volume – l’autore non ha alcuna intenzione di comprendere, all’ombra di interpretazioni politicamente corrette, l’incedere delle contraddizioni e delle vessazioni sociali, come «forma di elargizione caritatevole che la borghesia, il potere, la società dello Spettacolo concede ai suoi figli sbagliati». Bensì la narrazione è un concentrato di disperazione e rabbia, una sorta di maieutica parresìa che con Foucault potremmo definire uno scrivere segnato dalla franchezza di sputare la verità al potere, nel rompere le gabbie del sorvegliare e del punire di cui si nutre il controllo sociale dei luoghi descritti nel romanzo. Infatti, prestando attenzione nella lettura, si scorge la filigrana che lega i luoghi in cui si svolge la narrazione: geografie liminari, periferiche, ai bordi della società del controllo, dove la tecnologia disciplinante, definitivamente implosa, ha ormai ceduto il posto al controllo sans phrase dei reietti e dei ribelli della società: all’insieme di quella serie di dispositivi repressivi e misure cautelari che, abdicata la possibilità di redenzione e sganciati da qualunque determinazione, sono solamente condizione dell’economia penale.

Lo stadio, la strada, la periferia sono geografie urbane borderline dove lo Stato giammai imporrà il monopolio della forza, poiché non ne è capace, e giunge bensì a compromessi, tenendo alla giusta distanza la gabbia, il sangue e l’inferno di questi luoghi per la gioia del pubblico pagante. Nessuna redenzione, dunque, in un romanzo crudo, i cui rimandi sono inequivocabilmente alla letteratura di Bunker, alla droga, alla violenza, al sesso. Né tantomeno rappresentazione apologetica, ma solamente il piacere di narrare ciò che è il mondo dei reietti. O meglio rappresentare lo specchio rotto della società borghese.
Dopotutto il rappresentare lo spazio liscio, privo di conflitti, è gioco facile della società controllata, per catturare i desideri dei poveri e dei proletari e alimentare la macchina dei beni di consumo. D’altro canto, Gramsci non considerava la cultura proletaria come una «bizzarria», ma come una «cosa molto seria», proprio per dare forza alla «cultura degli umili» e così spezzare la catena degli interessi della cultura egemone.
Per spezzare la subalternità, in questa opera prima, Milazzo mostra la dignità di chi vive i luoghi di periferia. Un tentativo di spezzare anche quel processo di reificazione, di riduzione della vita a cosa al fine di poterla maneggiare, controllare, amministrare: cioè aspetti peculiari della vita sono ridotti a oggetti di dominio. E ovviamente, poiché il potere che esercita tale dominio non lascia alcun margine di alternativa a se stesso, gli oggetti (ovvero, la vita) da esso e ad esso conformati sono di un unico tipo, omologato dal/al potere che li produce. A patto che i ribelli non mettano a ferro e fuoco la città mediocre.