Nelle prime ore di venerdì 19 luglio 1988, i vertici di Teheran chiusero i cancelli delle principali prigioni del paese. I secondini ebbero ordine di non rivolgere parola ai detenuti e di far sparire dalle celle tutti i giornali, le radio e le televisioni.

ALL’INTERNO DELLE CARCERI, le diverse sezioni detentive furono separate in modo ermetico l’una dall’altra. Gli accessi agli spazi comuni – il cortile, l’infermeria, i laboratori e le sale di lettura – furono sbarrati. Ai prigionieri non venne consentito uscire dalla cella. Le visite dei famigliari furono annullate.

Non fu permesso recapitare lettere e pacchi. Nemmeno i medicinali furono consegnati ai prigionieri. I telefoni squillarono a vuoto. Ai parenti fu fatto espresso divieto di riunirsi nelle vicinanze delle prigioni.

Il personale dei tribunali fu mandato in ferie: i famigliari dei detenuti non sapevano a chi chiedere informazioni. In panico, tanti genitori si recarono in fretta e furia nella città santa di Qum per chiedere consiglio all’Ayatollah Montazeri, a quel tempo ancora (per poco) erede designato dell’Imam Khomeini.

A CAPO DELLA REPUBBLICA islamica dalla rivoluzione del 1979, Khomeini aveva promulgato una fatwa (decreto religioso) poco prima di quel tragico 19 luglio per costituire commissioni speciali. L’obiettivo era condannare a morte tutti gli esponenti della sinistra, declinata in Iran in modi diversi. Erano accusati di mohareb (in guerra con Dio) oppure di apostasia. Le commissioni funzionavano alla stregua dei tribunali della Santa Inquisizione nel Medioevo: ponevano domande complesse di teologia, a cui gli studenti universitari non sapevano dare risposta.

Oppure chiedevano loro se il padre avesse l’abitudine di pregare, di digiunare durante il Ramadan e di leggere il Corano. Se i detenuti del carcere di Evin a Teheran erano bendati, quelli di Gohar Dasht (a Karaj, a ovest della capitale) potevano invece vedere in volto i membri della commissione.

COSÌ SCRIVEVA lo storico Ervand Abrahamian nell’ultimo capitolo del volume Tortured Confessions. Prisons and Public Recantations in Modern Iran (University of California Press, 1999). Nell’estate del 1988 migliaia di giovani iraniani – 5.000 secondo varie organizzazioni per i diritti umani – furono impiccati in gruppi di sei, alla maniera persiana: la corda al collo che ti fa crepare lentamente in un buon quarto d’ora, e non il salto dallo sgabello che ti risparmia qualche minuto di agonia. Per gli squadroni della morte, il lavoro fu intenso. Dopo qualche giorno, i boia della Repubblica islamica chiesero l’ausilio del plotone d’esecuzione, ma fu loro risposto che «la sharia richiede l’impiccagione per gli apostati e per i nemici di Dio». In realtà, la corda al collo fa meno rumore.

Queste vicende ebbero luogo improvvisamente, senza alcun preavviso. Le famiglie vennero informate dell’esecuzione dei loro cari soltanto dopo il 25 novembre. Alla spicciolata, affinché non si organizzassero. Qualche genitore ricevette una telefonata. Qualcun altro fu invitato nel carcere di Evin per ritirare gli oggetti appartenuti al figlio, oppure alla figlia. Tra gli averi, qualche testamento in cui c’era scritto poco niente. Nei cimiteri apparvero lapidi senza nome, altrove furono rinvenute fosse comuni. Alle famiglie fu vietato osservare i quaranta giorni di lutto.

PER L’AYATOLLAH MONTAZERI il massacro del 1988 fu la goccia che fece traboccare il vaso: scrisse due lettere pubbliche a Khomeini e una alla commissione speciale, spiegando che «queste esecuzioni di massa violano i principi fondamentali dell’Islam, del Santo Profeta, e del nostro Imam Ali». Aggiunse che lui, più di ogni altro, aveva sofferto a causa dei Mojaheddin: gli avevano ucciso un figlio. Chiese di essere sollevato dalla pesante responsabilità di essere il futuro Leader supremo. Khomeini lo accontentò. Il dissenso di Montazeri e la sua vicinanza alla sinistra gli costarono la poltrona. Alla morte di Khomeinei, nel giugno 1989, a succedergli sarà Khamenei. La presa di posizione di Montazeri servì comunque a salvare delle vite: se nel carcere di Isfahan non ebbe luogo il massacro, fu perché a dirigerlo erano i suoi sostenitori.

LA PURGA NELLE CARCERI iraniane ebbe luogo all’indomani della fine del conflitto contro l’Iraq. A essere presi di mira furono i membri del gruppo armato dell’opposizione dei Mojaheddin del Popolo, colpevoli di essersi schierati con il dittatore iracheno Saddam Hussein durante la guerra, nonché diverse organizzazioni marxiste, tra cui i Fadayan del Popolo e il partito comunista Tudeh. Come ha scritto Alberto Zanconato, già corrispondente da Teheran per l’Ansa, «gran parte dei detenuti impiccati non si erano macchiati di delitti di sangue e stavano scontando pene già inflitte, spesso quando erano degli adolescenti. I corpi furono sepolti in fosse comuni, specie nel cimitero di Khavaran, nel sud di Teheran, alle famiglie non è mai stato detto dove si trovano ed è sempre stato impedito loro di tenere cerimonie funebri».

ANCORA NON SI SA perché Khomeini passò per le armi migliaia di detenuti. Secondo alcuni, scrive Abrahamian, potrebbe essere stata «la reazione del regime agli scioperi della fame nel carcere di Evin». Oppure, più semplicemente, le prigioni della Repubblica islamica erano sovraffollate: le esecuzioni era un modo per «fare pulizia». Più probabilmente, il Leader supremo voleva mettere a tacere l’opposizione e diffondere il terrore. Oppure, era arrabbiato e doveva prendersela con qualcuno: le pressioni delle Nazioni Unite lo avevano obbligato al cessate il fuoco contro l’Iraq, per lui era stato come «bere un calice di veleno». E ancora, il massacro potrebbe essere stata la risposta all’offensiva militare dei Mojaheddin nell’Iran occidentale nel momento in cui i vertici di Teheran avevano accettato il cessate il fuoco.

IN IRAN, QUESTI EVENTI sono noti come il massacro del ’68: nel calendario persiano ricorreva l’anno 1368. Parlarne è sempre stato pericoloso: le famiglie delle vittime sono ancora oggi perseguitate.

Ora, a fare luce sull’uccisione di migliaia di detenuti politici nel 1988 sarà il processo che si è aperto il 10 agosto in Svezia. A fare da cassa di risonanza è l’insediamento, la settimana scorsa, del neopresidente iraniano, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi: anche lui è chiamato in causa in questa tragica pagina della Storia iraniana. A scegliere chi mandare a morte era la commissione di cui facevano parte Raisi, nelle vesti di viceprocuratore generale, e Mostafa Pourmohammadi, che è stato ministro della Giustizia nel primo mandato del governo del presidente Hassan Rohani (2013-2017). Raisi non risulta imputato, ma il suo ruolo sarà discusso durante le deposizioni di decine di testimoni che saranno ascoltati da qui alla fine del processo, prevista nel 2022.

SUL BANCO DEGLI IMPUTATI davanti alla Corte distrettuale di Stoccolma siede Hamid Nouri, 60 anni, accusato di avere avuto una responsabilità nella selezione dei detenuti da impiccare nell’estate del 1988. Nouri è accusato di essere stato l’assistente del procuratore nella prigione di Gohar Dasht dove molti dei detenuti furono uccisi, ma respinge le accuse.

È stato arrestato nel novembre 2019 al suo arrivo a Stoccolma, dove si era recato per far visita a membri della sua famiglia. Il processo si svolge in Svezia perché le leggi del Paese riconoscono la giurisdizione universale della magistratura svedese nel perseguire crimini particolarmente gravi, indipendentemente da dove siano stati commessi. Un ruolo chiave nell’istruzione del procedimento l’ha avuto l’ex prigioniero Iraj Mesdaghi, che ha compilato un dossier contro Nouri: nel carcere di Gohar Dasht i detenuti potevano vedere in volto i membri della commissione che stava per condannarli al patibolo.