(3 febbraio 1957, ai piedi del Cerro Torre, Patagonia argentina)

«Sono stanco, abbattuto e avvilito. Me ne sto qui, seduto sulla nostra casa di sasso vicino al mucchio di chiodi e delle staffe. Sopra questo materiale ho gettato il mio martello. È un martello grosso, massiccio, fatto di legno, ferro e canapa, con una logora fettuccia di canapa che serve per tenerlo legato al petto.

Il sole è calato da tanto tempo e il mio martello mi ricorda le battaglie in cui mi ha aiutato. Per me questo attrezzo è il fucile del soldato, il bisturi del chirurgo, la dinamite del minatore. Con esso ho picchiato i chiodi fino all’esasperazione, quelli che si piantano dopo ore di ricerche.

Ho picchiato chiodi ottimi ai quali mi sono abbandonato pieno di fiducia. Chiodi malsicuri, che ho fissato come si fissa un pericolo sovrastante. Mi ha schiacciato anche i noccioli delle pesche e delle prugne per calmare un poco la sete o la fame.

È il mio martello; quando lo levo di tasca per picchiare è segno di lotta, segno di vita, anche se a volte mi scappa di mano per la fatica o per il freddo.E quando mi sento solo e triste come oggi, stanco di una faticata che non è servita a niente, il mio martello, con tutti i ricordi che mi riporta a galla, mi è più caro che mai».

Cesare Maestri, «Arrampicare è il mio mestiere», Baldini Castoldi Dalai, 2013 (1961), pagina 82

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Il martello da roccia, usato nell’alpinismo artificiale classico (dove si sale anche con l’aiuto di staffe), è, insieme alla piccozza, uno dei simboli dell’alpinismo. Uno strumento per ovvie ragioni caro al «manifesto», con cui ci piace inaugurare questa rubrica dedicata ai «ferri del mestiere», compagni necessari delle attività che andremo a raccontare. m. ba.