Non sono state tante le vite nelle quali poter specchiare almeno una parte della nostra esistenza, per trovare forza, ragione e connessione. E che da sole valgono, per le loro specificità, un’intera storia collettiva. Nella fattispecie, quella fondativa dei primi dieci anni del gruppo del Manifesto. Con tutte le sue novità e potenzialità, con tutte le sue imprese, sconfitte e drammatiche divisioni.

Ma soprattutto con tante esistenze appassionate di donne e uomini che tentavano di costruire in Italia dentro un grande movimento di massa – dal ’68-’69 agli anni Settanta, quelli del Pci del compromesso storico, dei metalmeccanici alla fine organizzati unitariamente nella Flm che vedevamo come il Fronte di liberazione dei metalmeccanici, delle stragi fasciste e di Stato, dell’avvento del brigatismo rosso – un orizzonte rivoluzionario nuovo di fronte alle sconfitte della sinistra riformista. Una di queste esistenze è quella di Gianni… di Gianni Usai.

Che in questi giorni propone in un piccolo-grande libro, una sua lunga memoria biografica, Operaio in mare aperto. Conversazioni su lotta, uguaglianza, libertà (edizioni Gruppo Abele, pp.141, 10 euro), raccolta e curata in forma d’intervista da Loris Campetti. Ma questa non vuole essere tanto una recensione, quanto una storia. Quella di un lungo e travagliato apprendistato alla vita e alla politica non professionale, alla lotta per l’eguaglianza e la libertà quella che tutti noi vivevamo in quegli anni, così radicale e profonda da illuminare anche le attuali voragini di buio.

È la storia di un ragazzino sardo, da poco tirato fuori da una bacinella di sanguinaccio, con le trame del banditismo che lambiscono l’album di famiglia e le parole del padre minatore, discriminato perché comunista e iscritto alla Cgil, che finisce da emigrato con tutta la famiglia nella grande città-fabbrica di Torino dell’inizio anni Sessanta. E che subisce, ma anche reagisce, alla sua trasformazione in lavoratore subalterno quando ha ancora sedici anni e l’adolescenza è tutt’altro che finita.

Da «Napule» a «giusteur»

Così gli precipita addosso la grande voragine di ferraglie e ordini, di sistemi produttivi e macchine, di tempi e abiti lavoro, di vociare nei reparti che è e sarà ancora per molto tempo, ma non per sempre, il mega-stabilimento Fiat di Mirafiori. Una città nella città, un sistema di vita dentro l’Italia che controlla e seleziona le persone a seconda del credo politico, che dà mutua Fiat, sindacato Fiat, pensione, Fiat, colonie Fiat in cambio di fedeltà e subalternità al padre padrone.

Gianni torinese, soprannominato Napule, dai primi lavori nelle piccole officine, le boite, legherà diciassette anni di vita alla grande Fabbrica italiana automobili Torino, per fortuna non alle catene di montaggio ma nei reparti delle Meccaniche. Dove, nella sua postazione, usa e fabbrica addirittura, lime, chiavi di ogni tipo, a stella, a brucola, fisse, da modificare ogni volta per l’uso su mandrini, alberi e cuscinetti. Un aggiustatore, un operaio di fino, il giusteur sarà il suo soprannome che gli rimarrà per sempre.

La prima iscrizione, quasi segreta, alla Fiom che restava debole ma sostenuta con ostinazione e disciplina nei reparti confino dove erano stati relegati i gruppi sindacalizzati e comunisti della prima sconfitta ad opera di Valletta; i primi scioperi, le prime cariche della Celere contro i picchetti. Fino all’Autunno caldo che rompe dentro la Fiat le gabbie che dividevano gli operai, e che, raccontano Gianni e Loris Campetti che negli stessi anni comincia il suo apprendistato di corrispondente da Torino per il manifesto, «fa crollare il muro impenetrabile alzato per impedire il solo contatto, l’incontro tra storie e culture diverse».

La stagione dei consigli

Avveniva grazie a immensi cortei interni dove una fiumana di esseri umani rivendicava, in un teatro a viva voce e creativamente la proprio nuova dignità. Un movimento reale che cambiava natura anche alla rappresentanza sindacale. Per trattare la condizione operaia nascevano i delegati di gruppo omogeneo e i consigli dei delegati. Erano arrivati i gruppi della sinistra extraparlamentare nel frattempo e anche il manifesto. Che esisteva come rivista e gruppo politico editoriale dal giugno del 1969 – in questi giorni sono sono 45 anni esatti – ma che Gianni Usai, ricorda di avere incontrato con il primo numero de il manifesto quotidiano comunista, del 28 aprile 1971, non a caso titolato in apertura: «Dai duecentomila della Fiat riparte oggi la lotta operaia. È una lotta che può far saltare la controffensiva padronale e i piani del riformismo.

Corrispondenza dalla prima base rossa di Mao». Eccola dunque , subito, l’appartenenza, ad un gruppo politico che fa dei consigli operai, del controllo da parte dei lavoratori del processo produttivo, del sapere operaio, dell’abolizione della divisione tra lavoro manuale e intellettuale la sua ragion d’essere. E che insiste sull’inchiesta operaia, costruendo strumenti, «esperti e rossi» come Medicina democratica che punta a coinvolgere i lavoratori nel risanamento ambientale individuato come nuovo e produttivo lavoro. Senza farsi bastare la presa di parola nelle assembleee operaie, ma interrogandosi anche con la scrittura e la poesia.

Un lavoro nel lavoro. Da giusteur collettivo, da approfondire in tante commissioni operaie a Roma e alla sede del Manifesto a Milano a Corso Sempione. In un clima, tutto intorno, però tenebroso dove lo stragismo dello Stato aveva aperto, già dal 1969, una stagione di sangue e di paura che si sentiva sulla pelle e che non sarebbe finita mai.

Alla fine è andata com’è andata. Quello straordinario movimento durato dieci anni è approdato ad una sconfitta storica. Che per Gianni e ognuno di noi ha voluto dire devastazione anche personale. Chi si è ritrovato senza l’organizzazione che aveva costruito con assiduità, chi senza il giornale che aveva sostenuto con fedeltà, chi senza più l’amore della sua vita, chi isolato nel sindacato e rimosso o licenziato dalla Fiat, passata al contrattacco nel 1980 con la marcia dei 40mila. E chi addirittura minacciato da un fratello e «compagno» all’improvviso rivelatosi brigatista. A Gianni Usai, e nel giro di pochi giorni, questi avvenimenti sono precipitati tutti addosso e tutti quanti insieme. Fino a ritrovarsi in assoluto «senza» niente. In un deserto di possibilità. Solo chi creativamente aveva affrontato il conflitto come l’operaio-scultore di pupazzi Piero Perotti riucirà a «licenziare il padrone» per riprendersi la libertà. Allora, forse solo con la fuga si poteva trovare una salvezza.

Ma Gianni scelse una ritirata originale, che prima assomigliava ad una espiazione ma che in pochissimi anni si sarebbe rivelata una vittoria operaia con altri mezzi. Aveva riscoperto le radici sarde, ma soprattutto il mare. In una località in disparte, difficile da trovare anche sulla carta geografica della Sardegna, nell’Oristanese: Su Pallosu (il paglioso). Lì, tra le colonie di fenicotteri rosa e le capanne di giunco – ce n’erano ancora tante, come tante ancora si vedevano apparire tra gli stagni di Cabras e Tharros – con la cassetta degli attrezzi dell’aggiustatore, diventerà marinaio e pescatore, in una impresa e fatica forse più pesanti che non il lavoro di fabbrica. Lì tornerà a tessere l’uguaglianza e la libertà apprese nelle officine.

Andavamo a Su Pallosu

Dopo un po’ cominciammo a cercarlo e ad andarlo a trovare. Andavamo a Su Pallosu convinti di dover risollevare un compagno sconfitto e in fuga. Scoprivamo che era Gianni che sosteneva noi con la sua fermezza e serenità, con la rabbia calma che lo aveva sempre contraddistinto nei tanti «caos» della politica. Raccontava sulla piscina naturale della spiaggia di Sa Mesa Longa, l’impegno con gli altri pescatori, le difficoltà della cooperativa e della pesca, la necessità di salvare l’ambiente. In poche parole, aveva aperto, dopo la Fiat, il fronte del mare.

Altro che vinto. Quel posto non era un buen retiro, ma la trincea del futuro, quella del lavoro che per dispiegarsi e autorganizzarsi contro e oltre lo sfruttamento del capitalismo, deve salvaguardare l’ambiente pena la sua scomparsa. Una autogestione di nuovo tipo che pretendeva e pretende la forma del «sapere», e in questo caso del «sapere il mare». Così Gianni, dopo avere contribuito a riorganizzare le cooperative di pesca dell’area e a promuovere un rapporto diretto con i consumatori con nuove strumentazioni e tecnologie, attiva l’Università di Cagliari perché impegni dipartimenti e ricercatori a salvaguardare la pesca, il ripopolamento, l’habitat marino e quello delle spiagge – così il mare s’arricrea – avviando un coinvolgimento dei lavoratori del mare nel rispetto delle leggi contro la pesca nefasta, come lo strascico, che distrugge per sempre la fauna e la flora marina. Gianni diventava il ricercatore, lo scienziato di riferimento sul campo.

Così come il punto di approdo, è il caso di dire, di tanti intellettuali e scrittori, primo fra tutti l’amico di sempre Stefano Benni, strenuo sostenitore del comunismo-usaismo, e poi di tanti cineasti – tra gli altri i registi Vicari e Guido Chiesa che racconteranno nel film Non mi basta mai del 1999 storie di solidarietà operaia dopo la sconfitta Fiat, e Sabina Guzzanti che all’esperienza della pesca a Su Pallosu raccontata da Gianni Usai dedicherà un film, Le ragioni dell’aragosta, arrivato nel 2007 alla Mostra di Venezia.

Giustizia, uguaglianza, creatività, nuova legalità. Gianni ha tenuto l’occhio alla bussola. E conclude l’intervista ricordando che, nonostante le divisioni che l’hanno fatta implodere, l’esperienza del manifesto è stata ed è la storia di un riscatto collettivo. Davvero, con lui, le reti lanciate non erano a strascico e si sono riempite.