L’ordinanza del Tribunale di Roma con l’arresto degli amministratori pubblici e dei loro stretti collaboratori è un altro colpo micidiale alla credibilità delle istituzioni pubbliche. Dopo la prima ordinanza del dicembre scorso alcune tra le decine di persone implicate nelle intercettazioni furono sacrificate obbligandole alle dimissioni. Il presidente del consiglio della capitale d’Italia, un assessore e un presidente di Municipio furono fatti tornare negli spogliatoi nel disperato tentativo di perpetuare un sistema marcio.

Sono finiti ugualmente in carcere insieme ai loro sodali, segretari particolari o dirigenti apicali nominati con la più disinvolta arbitrarietà da una «politica» che non ha più alcun contrappeso di potere nelle istituzioni e nella società. Se non vogliamo alimentare una tragica spirale di disaffezione civica – e le percentuali di voto alle recenti elezioni testimoniano proprio del profondo malessere che vive l’opinione pubblica – dobbiamo individuare le cause strutturali del morbo che ha infettato la Capitale e l’intero paese.

Le democrazie vivono sull’equilibrio dei poteri istituzionali che sono chiamati alla direzione della cosa pubblica. Una malintesa cultura dell’autonomia della sfera politica su ogni altro aspetto della vita istituzionale si è invece affermata a scapito di ogni altro potere. Negli anni successivi a Tangentopoli venne infatti portata a termine una profonda riforma di cui oggi vediamo gli effetti e i sindaci eletti dal popolo hanno iniziato in base alle leggi a disarticolare la pubblica amministrazione ponendo a capo dei nodi fondamentali i propri fedeli adepti. È solo così che possiamo spiegarci perché un uomo come Odevaine sia riuscito a fare una carriera istituzionale fulminante che – dopo Veltroni e Zingaretti – lo ha portato fino al cuore dello Stato. Oggi basta essere dentro il cerchio magico del potente di turno e si può arrivare dove si vuole perché le regole lo permettono. È su questo passaggio epocale che dobbiamo indagare se vogliamo tornare a ristabilire l’etica della pubblica amministrazione.

E qui tocchiamo il secondo elemento del disastro. Questo sistema politico autoreferenziale ha potuto decretare il trionfo o l’eclissi di importanti aziende di erogazione di servizi perché le scelte sono state compiute nella più assoluta discrezionalità. La Cooperativa 29 giugno e La Cascina, solo per fare due esempi romani, hanno costruito le loro fortune su questo. Decide il sindaco o un assessore che sale e chi scende nella scala economica e sociale. Così imprese sane, permeate dei valori di solidarietà sociale hanno lasciato il posto al malaffare. E quanto è stato scoperchiato nel sistema di affidamento dei servizi di accoglienza vale anche per gli affidamenti di appalti alle imprese, dalla manutenzione degli edifici pubblici a quella delle strade e così via. Pochi spregiudicati amministratori decidono durante le cene eleganti con Buzzi rigorosamente bipartisan chi beneficerà dei bilanci pubblici. Le imprese sane chiudono i battenti e lasciano il posto a chi aumenta a dismisura i costi delle opere.

L‘infezione scoperchiata dalla seconda fase dell’inchiesta è così ramificata che riusciremo a debellarla solo se risaliamo alle radici del male. Non se ne vedono le premesse: il sindaco Marino continua nella sua solitaria opera di auto esaltazione con il solito refrain che «sta cambiando tutto». Una caricatura del renzismo non solo è inadeguato rispetto alla gravità del momento ma pure privo di riscontri. Non c’è persona normale che non veda infatti il degrado della Capitale. E non basta. È il sindaco Marino ad aver voluto e (finora) ottenuto la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024 quando è noto a tutti che sono stati gli eventi straordinari ad aver amplificato gli effetti della cancellazione delle regole. Il futuro della capitale viene affidato alla straordinarietà gestita da Giovanni Malagò. Per risollevare la capitale d’Italia dal baratro c’è invece da intraprendere la lunga strada della ricostruzione dello Stato ripristinando organi di controllo slegati da nomine politiche e adeguati contrappesi istituzionali. Ogni scorciatoia non farà che aumentare il degrado istituzionale.