Uno spettro minaccia la nostra democrazia: la Cosa Rossa. Nessuno sa precisamente che cosa sia.

Pisapia, che non è ancora riuscito a trovare «la formula che mondi possa aprirci», la indica montalianamente come «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Una deriva minoritaria da scansare come la peste.

Il giornalismo politico, che spesso va in cerca di sigle semplici, da qualche tempo la considera come l’indistinto coacervo dell’estremismo italiano.

Destino delle parole. E pensare che il termine, il terribile sintagma, apparso lo scorso anno sulle cronache politiche di tutta la stampa italiana, era stato coniato per designare qualcosa di nuovo che stava nascendo a sinistra del Pd. Ma destino anche della vita politica di questo davvero mal messo Paese.

Per mesi a sinistra (come del resto a destra, ma forse meno) non si è dibattuto che di posizionamenti, di qua o di là, di leader, questo o quello, di partecipazioni consentite e vietate, tu si tu no, e mai un ragionamento programmatico, una indicazione di contenuto strategico che illuminasse la scena della depressa vicenda politica nostrana. Appena si fa un accenno ai contenuti si ricorre a formulette di pronto uso.

Ma in questo caso la semplificazione non è innocente. La Cosa Rossa sta diventando un dispositivo ideologico per bollare con il marchio infamante dell’estremismo, del minoritarismo, del velleitarismo, del massimalismo (altri «ismi» si aggiungeranno a breve) le uniche forze politiche realmente ispirate da un progetto riformatore.

È davvero singolare vedere bollati Sinistra Italiana, Possibile, il movimento civico di Tomaso Montanari e Anna Falcone come esponenti di un progetto estremista.

Qualcuno ha avuto la pazienza di leggere la Piattaforma programmatica di Sinistra Italiana, che ha celebrato il suo congresso fondativo nel febbraio di quest’anno? Qualcuno ha trovato velleitarismi eversivi nel discorso di apertura di Montanari al Brancaccio, un esponente che vuole fare dell’applicazione della nostra Costituzione l’asse di un programma strategico?

Saremmo al ridicolo, se non fossimo al tragico, alle ulteriori prove di una degradazione culturale della politica nazionale che non sembra conoscere confini. La difesa e l’applicazione della Costituzione diventano programmi eversivi, nonostante il 60% degli elettori italiani abbiano da poco votato per la sua intangibilità.

Ma sotto l’immiserimento culturale o, meglio, di conserva con esso, si cela una trama di pratiche politiche oggi dominante nel fronte che si definisce riformista.

La sinistra diventa una Cosa Rossa innominabile e infrequentabile perché impedirebbe le necessarie alleanze con le pattuglie parlamentari del trasformismo militante degli Alfano o dei Lupi, e di qualunque altro transfuga si presti alla bisogna.

L’intransigenza politica e morale diventa così settarismo, impedisce elasticità di manovra, flessibilità e adattabilità nelle alleanze. Per alcuni esponenti di Mdp e per tanti di Campo progressista, infatti, il riformismo che conta è quello che si fa dai banchi del governo, consistente nella realizzazione di “quel che si può”, senza rischiare troppo, tenendo nel debito conto gli equilibri dominanti. Primum vivere.

E’ tale riformismo, indistinguibile da quello del centro-destra, che ha ispirato negli ultimi anni le magnifiche sorti e progressive dell’Italia di oggi.