Il decennio della grande speranza, del grande sogno, inizia con un colpo sparato alla testa dell’uomo che più di ogni altro incarnava, a ragione o a torto, la speranza e il sogno. Lo vedono tutti, in diretta o in differita di pochi minuti. Tutti, caso unico almeno fino all’11 settembre, ricorderanno per decine d’anni dove si trovavano quando la notizia li raggiunse.

La leggenda di John Fitzgerald Kennedy nasce in quel momento, in Dealey Plaza, Dallas, Texas. Senza quei colpi, senza l’agonia sul grembo della moglie, la first lady più sofistaicata e alla moda della storia, l’uomo sarebbe passato comunque alla storia: era giovane, era bello, era ricco, proveniva dalla minoranza cattolica e non era mai successo prima. Aveva evitato di misura la guerra nucleare, parlava di pace, piaceva alle donne e ricambiava con gli interessi. Era un’icona pop. Era una star prestata alla politica. Però a trasformarlo in mito capace di sfidare il tempo fu Lee Harvey Oswald. A renderlo immortale fu la morte in diretta, fissata per l’eternità nel video amatoriale di Zapruder.

Un’amara disillusione

Quei colpi cambiarono tutto, non solo la storia ma la disposizione d’animo di un’intera generazione. Accesero la miccia. Importa poco sapere se a spararli fu un pazzo solitario o un esecutore di un ben orchestrato complotto. Ancor meno ha senso domandarsi se la vittima eccellente meritasse davvero di calamitare tutte quelle aspettative. Il risultato non cambia: a essere falciata fu l’illusione della mediazione politica, il miraggio della giustizia portata in dono da un politico dotato di sorriso smagliante e bella presenza. L’impatto sull’immaginario di tutti e di ciascuno fu immenso, inaudito: sollevò un’onda gigante di disillusione amara destinata a ricadere come tsunami sulle metropoli d’America e d’Europa sotto forma di rabbia e rivolta.

L’impronta e la testimonianza di quella lacerazione è inutile cercarle nella tonnellata di volumi scritti per dimostrare che a tirare il grilletto non fu un povero cristo ma la cupola della Cosa nostra a stelle e strisce, con attiva complicità di Mr. Hoover. Le tracce sono piuttosto incise nella cultura pop, alla quel del resto JFK appartiene di diritto. Si contano, in compenso, i tentativi di riportare in parole o musica o immagini non tanto la tragedia in sé quanto le scosse telluriche che provocò nell’animo dei contemporanei. Ci provò J. G. Ballard, nel suo capolavoro più pazzo e stilisticamente azzardato, La mostra delle atrocità (1969), che mirava proprio a registrare sin dalla delirante frammentazione burroughsiana del testo la disintegrazione di ogni ordinata sensatezza provocata dagli spari di Dallas. L’attentato, descritto come una gara automobilistica, è oggetto solo dell’ultimo capitolo, ma tutto il libro rinvia più o meno direttamente a Dallas.

All’inizio, i riferimenti alla tragedia di Dallas furono impliciti, ellittici. Brian Wilson iniziò a scrivere per i Beach Boys The Warmth of the Sun la sera stessa del 22 novembre. Sembra parlare come tante altre di un classico cuore infranto. Invece riflette, per ammissione dell’autore, la tristezza suscitata dall’attentato di poche ore prima. Più apertamente allusivo, ma pur sempre indiretto, l’eco dell’omicidio in Sound of Silence, di Paul Simon: scritta anche questa a caldo, nello stesso novembre 1963. Il pezzo di Simon registra lo smarrimento degli americani subito dopo il trauma senza la mediazione della memoria. Lou Reed lo farà invece quasi vent’anni dopo con The Day John Kennedy Died, che è a tutt’oggi il tentativo più lucido di tradurre nei linguaggi della cultura popolare la mazzata che cambiò l’anima e il cuore d’America: «Ho sognato di essere il presidente degli Stati uniti. Ho sognato di essere giovane brillante e che tutto questo non fosse uno spreco. Ho sognato che ci fosse un punto di svolta per la vita e per la razza umana. Ho sognato di poter in qualche modo capire che qualcuno gli aveva sparato in faccia, il giorno in cui John Kennedy morì».

La sensazione di una storia lasciata in sospeso, interrotta brutalmente prima che potesse svilupparsi nel suo naturale svolgimento è rimasta indelebile nel corso dei decenni. Al cinema nessuno la ha messa scena meglio di Clint Eastwood (interprete) e Wolfgang Petersen (regista) in Nel centro del mirino (1993). Clint è l’ultimo superstite delle guardie del corpo che avrebbero dovuto proteggere JFK a Dallas e quel fallimento continua a pesare sulla sua vita fino a quando non si ritrova, tre decenni più tardi, a dover proteggere un altro presidente in pericolo. Ce la farà, ma questo cambierà qualcosa solo per lui. L’incognita rappresentata dall’interruzione della vita e della presidenza Kennedy è destinata a rimanere tale. Un rimpianto.

Quel rimpianto e il tentativo di evitarlo sono al centro di 22/11/’63 che è il più ambizioso e acclamato tra i romanzi recenti di Stephen King. La cultura popolare vive di furti, rimaneggiamenti, suggestioni riprese e riadattate. È probabile che, quando scriveva la sua storia, King avesse in mente un celebre episodio della serie Ai confini della realtà andato in onda a metà anni ’80, Dallas, novembre 1963. Anche se il romanzo è molto più complesso, un elemento centrale è identico: in entrambi i casi l’illusione di rendere la storia migliore (di evitare il Vietnam, le rivolte dei ghetti, l’assassinio di Luther King) salvando il presidente si risolve in un completo disastro. Quella brusca sterzata della storia, quasi un’incrinatura nella linearità del tempo, non si può correggere.

Il grande assente

L’uomo che la determinò è il grande assente nell’immaginario popolare. A Lee Oswald, infatti, la cultura popolare ha dedicato poco spazio, ben più suggestionata dall’immagine grandiosa del complotto. L’eccezione è il bellissimo Libra di Don DeLillo che, pur sposando in pieno l’ipotesi della congiura, è il solo testo che non tratti Oswald come figurina piatta la cui intera esistenza si riduce all’attimo in cui tirò il grilletto fatale. Ma è un caso isolato. La leggenda di JFK non contempla altri protagonisti se non John e Jackie, la coppia più bella e la più disgraziata.

Nessuno, neppure il sovversivo Ballard, ha mai osato scalfire la mitologia moderna di JFK. Il solo a farlo è stato James Ellroy in American Tabloid, che forse proprio per questo resta il suo più coraggioso capolavoro. Come DeLillo, Ellroy crede nel complotto e lo descrive minuziosamente, ma il senso del romanzo è tutt’altro: è, sin dalla folgorante introduzione, la demistifcazione del mito di Camelot. Metodicamente, Ellory impoverisce la figura di Kennedy. La svuota del carico di attese, fantasie, rimpianti, sogni e nostalgie depositato dietro il suo ciuffo, il suo sorriso, il suo matrimonio scintillante e falsamente felice. Riduce il 22 novembre 1963 alla banalità di un omicidio politico, di un regolamento di conti. Sta alla cultura poopolare come Malcolm X a quella politica del suo tempo, quando, sfidando il divieto di Elijah Muhammad commentò il delitto che faceva lacrimare l’America e il mondo con un gelido «Chi la fa l’aspetti».