Il nostro è un film o un documentario? La questione ritorna nelle discussioni degli studenti della scuola Dora Maar alla periferia di Parigi, che il prefisso «93» nella percezione generale fa coincidere con l’etichetta della zona urbana a rischio. È qui che Eric Baudelaire arriva per un workshop di cinema, e rispetto al metodo più comune – un laboratorio di qualche mese con un saggio finale – propone un’alternativa: lavorare attraverso più anni – che diventeranno quattro – mettendo nelle mani dei ragazzi la macchina da presa.

IL RISULTATO sono molte ore di girato presentate lo scorso anno come work in progress al festival parigino Cinéma du Reel col titolo 128 semaines au college Dora Maar, che hanno trovato ora forma mobilissima grazie alla complicità del montaggio di Claire Atherton (premiata a Locarno per l’insieme della carriera) in questo Un film dramatique. E la domanda su cui si apre ne riassume con precisione il senso e la scommessa: perché Un film dramatique è un fare cinema che crea una relazione aperta con la realtà, capace di interrogarsi e di mettersi in discussione fuori dalle etichette – finzione o documentario – per illuminare un sentimento di trasformazione in cui si rispecchia il movimento del tempo.

Protagonisti, artefici, allievi i ragazzi che partecipano al film – e che lo realizzano e lo vivono – mettono al centro le proprie esistenze ma sempre in una prima persona collettiva che riguarda quanto accade intorno a loro e il «farsi» del progetto. Nessuno davanti alla macchina da presa racconta la famiglia, i genitori o quant’altro però nel corso degli anni si aprono all’intimità: le case, la malinconia, le preoccupazioni, l’immagine di sé stessi come banlieue che per il resto del mondo è solo violenza e criminalità.

LO SCORRERE del tempo è dato dai mutamenti rapidi dell’adolescenza – i tratti infantili che si mischiano ai primi foruncoli sulla fronte, i corpi che si trasformano – che coincidono con i modi anch’essi sempre diversi di confrontarsi con la macchina da presa – e con le immagini – passando tra diverse consapevolezze e un’abitudine che mantiene la possibilità della scoperta. Intorno, appunto, c’è il mondo, la Francia degli attentati di cui discutono e di cui avvertono nell’esperienza del quotidiano la durezza. Chi si sente guardato diversamente, molti hanno famiglie arabe o africane, e l’insegnante che gli ha spiegato che Daesh è il nome di un fiore.

La macchina da presa diviene uno spazio di libertà e insieme risponde a delle regole: che dire, come raccontare, in che modo mostrare? Ciascuno è lì nello spazio pubblico e nei frammenti di un privato che è filmarsi, un po’ come un selfie a cui si cerca guidati dalle suggestioni del regista, di dare un significato, un compito narrativo.
Dall’aula della scuola entriamo quindi nelle case: la Reunion di una delle ragazzine che è partita con la famiglia e finalmente, come dice filmando la nuova abitazione ha un giardino e guarda il mare. Le patatine mangiate davanti alla tv di un’altra mentre cucina gli spaghetti triturati per farli entrare nella pentola, la casa di famiglia in Romania di uno dei ragazzini ripresa al mattino presto durante le vacanze mentre fuori nevica. Il segreto della stanzetta a cui si confidano le proprie paure dell’altra a cui i genitori hanno cambiato scuola per sfuggire al bollo del «93».

E POI? Gli insegnamenti del regista sul suono in sinc o fuori sinc – se «desincronizzare il mondo» fosse una rivoluzione? – e le discussioni sulle origini, «sono francese 100% perché sono nato in Francia» dice il ragazzino rumeno mentre l’altro gli oppone l’importanza delle origine, l’Africa di suo padre e sua madre.
Baudelaire lascia che i ragazzi e il loro immaginario prendano forma poco a poco rimanendo nel rapporto con la macchina da presa, in quelle loro discussioni su cosa stanno facendo, se un dramma, una fantascienza o una storia di avventura. È un «teen movie» Un film dramatique? In un certo senso anche se più che un film sull’adolescenza è forse un film adolescente che nel proprio ritmo assume quei passaggi a volte bruschi a volte estremamente dilatati dell’età cercando negli sbalzi tra le incertezze e gli assoluti che ne sono la caratteristica di comporre un’immagine lontana dalla letteratura dell’adolescenza – non si parla mai di amori per esempio – e dallo sguardo adulto, mai generalizzata né esplicativa.

TUTTO ACCADE davanti ai nostri occhi nel confronto col cinema: è questo il luogo del racconto a cui ciascun momento viene riportato opponendo quella realtà ai luoghi comuni. Baudelaire mette in primo piano la singolarità di ciascuno che lo rende al tempo stesso un «personaggio», creando la distanza narrativa necessaria a produrre verità, in un orizzonte nel quale ogni sguardo trova il suo posto, il suo desiderio, la sua visione del mondo.