Lento nel suo incedere sicuro, Giulio Gelardi ci accoglie nei suoi terreni a Pollina, in provincia di Palermo, dove si occupa di produzione di manna da quarant’anni. Porta una lunga barba bianca ed un bastone, a tratti ricorda un mistico indù e quando apre la bocca conferma la saggezza che traspare dai suoi occhi, oggi è riconosciuto come il più importante produttore di manna nel mondo.

LA MANNA E’ IL PRODOTTO CHE SI OTTIENE dalla solidificazione della linfa di alcune specie di frassino del genere Fraxinus, che fuoriesce, tra fine luglio a fine settembre, dalle incisioni praticate sul tronco. Dopo un periodo lavorativo trascorso in Toscana, Giulio torna negli anni ’80 nelle terre del padre, in Sicilia. Segue l’attività paterna e prende in carico la raccolta della manna, ideando la tecnica «del filo», che consente di ottenere una quantità maggiore di «cannoli». L’invenzione diede una straordinaria spinta alla produzione, coinvolse nuove generazioni di produttori, grazie alla possibilità di implementarne quantità e purezza. Sotto l’incisione, effettuata con una lamina di metallo, viene annodato un filo con un pesetto che mantiene la verticalità e guida la sostanza verso il basso, senza perdite esterne e senza toccare la corteccia dell’albero.

LA SUA INSTANCABILE TENACIA l’ha portato nel tempo ad approfondire le conoscenze, raccogliendo informazioni dagli anziani dei paesi limitrofi e studiando in biblioteca. Ci sono stati anche momenti duri nel suo percorso di crescita e di recupero della tradizione. La produzione di due anni fa, ad esempio, è stata nulla, ma non era la prima volta. Spesso le cause di questi raccolti limitati sono dovute ai cambiamenti climatici, tuttavia Giulio ha una sua idea su ciò che sta accadendo: «Diciamo che a livello di paese io andavo contro la storia – racconta – perché il futuro è chimico o industriale. Io sono convinto che non sia né l’uno né l’altro. Non sappiamo che cosa succederà con i cambiamenti climatici: se il livello del mare si alza, vuol dire che ci sarà un aumento dell’evaporazione. Cosa succederà in Sicilia? Se aumenta l’evaporazione, noi non sappiamo se andiamo verso un tropicale desertico o un tropicale monsonico. La mia esperienza mi insegna che non c’è mai stata una regolarità precisa: in primavera pioveva discretamente, a luglio arrivava il grande caldo secco, poi ad agosto rinfrescava, caldo di giorno e fresco di notte. Da qualche anno è sparita la primavera con le sue giornate variabili e i diversi tipi di piogge, non è aumentata l’estate. Due anni fa è stata una annata disgraziatissima. Quest’anno la situazione è migliorata, gennaio-febbraio è stato un periodo di assoluta siccità, ma a fine marzo è arrivata una bella pioggia e le piante ora sono di una intensa vigoria. Recentemente il campo si è riempito di leguminose, mentre prima prevalevano le graminacee, come avena e grani selvatici. Le leguminose stanno azotando il terreno, che ha trovato il modo di ricostruirsi da solo, a ciclo annuale, sfruttando l’umidità dell’inverno. La natura sta un po’ provvedendo da sola: più è abbandonato il terreno, più è facile che si ricostruisca. Più è coltivato il terreno, più è vittima del cambiamento climatico. I rischi derivanti dai disastri climatici sono legati anche alle monocolture: noi mettiamo in natura delle piante talmente indebolite che il campo non riesce a sopravvivere alle variazioni troppo forti delle situazioni estreme. Prevedo che la prossima estate sarà un’ottima annata per la manna».

PROSEGUE GIULIO: «NEL 2018 non si fece manna, ma non è stato il primo anno. Nel 1962 si fecero solo 2 kg di manna, pioveva continuamente. L’anno dopo niente. La natura si trova gli equilibri anche con le variazioni climatiche, che diventano drammatiche perché l’agricoltura industriale è fragilissima, rigida nella sua formulazione. Qualsiasi evento diventa catastrofico: l’arrivo di un insetto, o un po’ più di umidità diventa problematico, le piante sono indebolite, dipendenti totalmente dall’uomo».

L’INTENTO NON E’ PIU’ PRODURRE per vivere, ma produrre per guadagnare. A questo punto ci si ritrova così, con il centro Sicilia desertico, che è uno spettacolo di fuoco splendido e drammatico allo stesso tempo. Impostando la monocoltura del grano, estirpando con il trattore e stravolgendo i fondo valle, fonte di umidità e di diversità, si sono cancellati anche quei luoghi di sviluppo della biodiversità locale. Un tempo c’era anche qualche miserabile albero, ora si vedono colline su colline senza un albero, senza difesa, senza capacità di trattenere l’umido, senza licheni e muschi, senza materiale in decomposizione. E questo vale ovunque. L’agricoltura, finché era contadina e basata sul sostentamento della famiglia, funzionava. Oggi l’agricoltura dipende dal fatto che se arrivano 10 millimetri di neve in meno sulle Alpi, va in tilt il Po e crea una crisi di produzione agricola in tutta la Pianura Padana.

SE VENGONO 10 MILLIMETRI IN MENO di pioggia in Sicilia – prosegue Giulio – significa che il contadino che coltiva le pesche dovrà andare a svuotare gli invasi di acqua, con l’innesco della lite spaventosa tra campagnolo e cittadino, lite che ancora non emerge perché il campagnolo non ha voce… Di fronte al fatto che non si può toccare l’acqua per la città, perché la città ha bisogno di una quantità d’acqua spaventosa, si frega il contadino con la sua umanità. E non è acqua che verrà restituita al terreno, ma andrà a finire a mare, sprecata. Nelle città l’acqua diventa fogna.

La variabilità c’è sempre stata, oggi la variante nuova è la coltura intensiva del grano e l’agricoltura capitalistica basata sul consumo sfrenato di acqua. La soluzione ai cambiamenti climatici non è innaffiare i deserti, ma aumentare la copertura vegetale. Bisogna muoversi in termini di aumento di biodiversità e di umidità perché le piante traspirino e producano umidità. Bisogna aumentare la copertura vegetale per aumentare il sequestro di anidride carbonica da parte delle piante. Per esempio, bisogna aumentare le formiche. Una volta un contadino mi ha detto: Dobbiamo fare un consorzio per comprare un medicinale per ammazzare le formiche che sporcano la manna e poi vale di meno. Io non sono d’accordo. Nel mio campo dovrebbero esserci 2 o 300 miliardi di formiche: a un decimo di grammo di peso ciascuna, sono circa trecento chili di sostanza organica. Quando muoiono, restano sul terreno gratis e diventano humus prezioso. Questo ragionamento è possibile solo lì dove ci sono degli ecosistemi in cui si integrino gli insetti con la produzione agricola. Riuscire a capire i cicli biologici degli insetti è fondamentale, tenendo conto che apportano materiale organico».

E ANCORA: «STANDO QUI HO sviluppato una attenta osservazione degli insetti. Cominciai a pensare alla vita delle cicale e delle formiche, la famosa favola della formica che accumula per l’inverno e della cicala che poi muore secca è una stronzata spaventosa. Le formiche accumulano per conservare il formicaio, moriranno tutte, resterà un nucleo super protetto per proteggere la regina. La formica lavora per morire. Le cicale invece si dividono in due famiglie, le tredicine e le diciassettine, quelle che vivono 13 o 17 anni. Dopo 12 anni o 16 anni di vita sotto terra, escono per riprodursi, quindi l’ultimo anno cantano perché sono contente, prima di morire devono fare le uova. Non gliene frega niente di morire. Se il contadino, per difendersi dagli insetti, fa l’apprendista stregone, ovvero utilizza prodotti per limitare l’invasione, grandi danni non ne può fare, però se lo fa una organizzazione grande, magari statale o multinazionale, allora i danni sono enormi».

GIULIO CONDUCE UNA VITA SEMPLICE, si occupa della madre di 97 anni, segue le sue piante, si reca al mercato messinese il sabato mattina. Indipendente, controcorrente, per lui il rapporto con le piante è il frutto di un ascolto continuo della terra: «Fare le incisioni non è faticoso, ogni mattina le braccia le rompi però si fa, la mattina presto. La raccolta significa mettersi lì con scatola e paletta, è un mestiere faticoso e appiccicoso. Cominciai a venire qui a lavorare tutti i giorni, seguendo mio padre e facendogli domande. Lui era un filosofo zen, mi rispondeva sempre: Stai lì e t’insegna. Lui faceva le incisioni quando la pianta era matura, guardava il colore della corteccia, la morbidezza, ma non sapeva che era questo che guardava, era diventato istinto».

Nella cecità dell’uomo e nella produzione industriale Giulio intravede le responsabilità dei cambiamenti climatici, che sono più forti dove l’uomo ha smesso di restare in equilibrio con la Natura. «L’unica cosa certa è l’incertezza, sempre», conclude.