Il capitano del teatro officina di Milano mi ha appena detto che il suo è un teatro famoso ma sconosciuto. Ho pensato che è una condizione che può essere attribuita a molti artisti e scrittori. E anche a un giornale come il manifesto. C’è un’altra similitudine con le persone. Oggi i portatori di virtù sono considerati colpevoli. E questo accade anche per un giornale intensamente virtuoso. La colpa è quella di non allinearsi al cinismo di massa. Oggi sembra che si vada verso un unico essere umano che possa essere un po’ di tutto questo. Un uomo dall’assemblaggio morale stile Ikea. E una figura di questo tipo non può incrociare un giornale in cui ancora si distinguono amici e nemici e in cui tra il dire e il fare rimane ancora qualche intensa somiglianza. C’è più bisogno del manifesto proprio nei luoghi dove fa fatica ad arrivare. Penso ai paesi più piccoli del nostro Appennino, quelli in cui trascorro la gran parte delle mie giornate. Sono le contrade che vivono ancora in un regime monarchico. Il loro re è lo scoraggiatore militante. È in questi luoghi che c’è bisogno di una voce sensibile. Senza questa voce siamo destinati a sentire il solfeggio perenne degli estremisti della moderazione e del rancore. C’è bisogno del giornale comunista per dare una mano ai giovani che vagheggiano un nuovo umanesimo delle montagne, per chi vuole coniugare impegno civile e poesia, scrupolo e utopia. Ogni volta che teniamo il manifesto fuori dalla nostra vita, in qualche modo diventiamo compagni di strada dello scoraggiatore militante. Perché non accada vi mando quattro foto (in quella su questa pagina sono ritratto da Mario Dondero).