Ieri a Halifax, nello Yorkshire, Theresa May ha presentato il programma elettorale del partito conservatore per le politiche, l’8 giugno prossimo. Fin dall’annuncio choc di queste elezioni in una mossa da guerra lampo, tre settimane fa, era andata ripetendo con regolarità da umanoide lo stesso slogan sulla leadership «forte e stabile», necessaria a guidare il Paese attraverso le forche caudine del negoziato Brexit. La sua campagna elettorale ha finora mostrato tutti i limiti della leader non avvezza al contatto con le persone, dell’oratrice resistibile lanciata in un tour di incontri dalla spontaneità nordcoreana. Ora finalmente esce il “suo” manifesto: dopotutto, questo è Theresa’s Team. Nella campagna, il partito conservatore non è quasi mai nominato.

Ed è un manifesto che secondo lei risponde alle cinque grandi sfide che aspettano il Paese: il bisogno di un’economia forte, la risposta a Brexit e a «un mondo che cambia», affrontare le «persistenti divisioni sociali», «rispondere alle sfide di una società che invecchia» e «stare al passo del progresso tecnologico».

Il che si traduce essenzialmente in tagli all’assistenza sociale, per i quali decine di migliaia di famiglie dovranno pagare di tasca propria le cure ai membri più anziani, nell’eliminazione della gratuità universale delle utenze di riscaldamento domestico per i pensionati, che sarà sostituita da un accertamento della fonte di reddito. Come anche via i pasti universali gratuiti alle scuole elementari.

Salta anche parte della protezione dell’ex governo Cameron-Osborne ai pensionati: contrariamente al Labour di Corbyn, che la manterrebbe, il prossimo governo May toglierà la garanzia che le pensioni sarebbero aumentate come minimo del 2,5%. L’Nhs, il sistema sanitario nazionale riceverà un’iniezione di 8 miliardi di sterline nei prossimi 5 anni.

A livello fiscale non sarà toccata l’imposta sul reddito, ed è abbandonata l’ilare idea di pareggiare il bilancio entro il 2020, sempre di marca Cameron-Osborne, posticipata a un leggermente meno irrealistico 2025. È stata messa la sordina a Philip Hammond, il ministro delle finanze troppo propenso ad alzare le tasse e col quale il clima è gelido. Ben consapevole dell’aver dissanguato l’Ukip di consensi, May ha anche recuperato dal suo ex leader Cameron l’altrettanto irrealistico obiettivo di tagliare l’immigrazione netta di centinaia di migliaia di ingressi l’anno, che aveva già lei stessa da ministro dell’interno e che non ha mai raggiunto.

Nel complesso, un manifesto che, come May stessa, cerca di cancellare l’immagine di privilegio e arroganza emanata dalla clique di Cameron, chino sulle preoccupazioni dei «lavoratori normali» (ordinary working people, frequente scelta lessicale che tradisce l’esperienza di un mondo pieno di nullafacenti eccezionali) e soprattutto consapevole di battersela con un leader veramente socialista.

Quanto al budget militare di un minimo del 2% di Pil per la Nato, verrà naturalmente raggiunto e superato con entusiasmo. Sarà anche per questo che, subito dopo, nella vicina Bolton, roccaforte Labour, May ha visitato una fabbrica. Di missili.