Orientarsi nella foresta di manga che vengono pubblicati ogni anno in Giappone è, per chi non si sia consacrato ad essi in modo totalizzante, un’impresa ardua. A volte, girando tra gli scaffali delle librerie di Tokyo dedicate ai manga, seguo l’intuizione e scelgo libri di autori sconosciuti, attratto dal titolo o dalla copertina. Altre volte mi affido ai consigli di amici, in particolare di Yoshimoto Banana, alla quale devo molte scoperte importanti. È stata lei a raccomandarmi Chiisakobe di Mochizuki Minetaro già qualche anno fa. Me lo procurai e lo lessi subito, anche se al momento era disponibile solo il primo volume e dovetti aspettare due anni perché uscissero gli altri tre. I lettori italiani sono stati più fortunati. I primi due volumi sono usciti di recente (Edizioni BD, entrambi i voll.pp 200, euro 9.50) a breve distanza l’uno dall’altro. E anche i successivi dovrebbero essere disponibili nei prossimi mesi.

All’inizio, di Chiisakobe e del suo autore non sapevo nulla, e a colpirmi fu soprattutto la singolarità del disegno, la sua pulizia. Il solo punto di riferimento consisteva nel fatto che era basato su un racconto di Yamamoto Shugoro, un autore che ammiro e con cui ero venuto in contatto la prima volta attraverso il cinema di Kurosawa. Tre dei suoi film, Sanjuro, Barbarossa e Dodes’ka-den, sono tratti da suoi racconti. Yamamoto era uno scrittore lontano dai circoli letterari giapponesi. Si considerava uno scrittore popolare, estraneo al mondo della letteratura alta, e rifiutò più di una volta i premi che gli venivano conferiti.

Mochizuki Minetaro ha trasportato la storia di Yamamoto, che si svolgeva nel periodo Edo, al presente. A differenza di certe messinscene teatrali o operistiche in cui scenografie e costumi moderni risultano incongrui e provocano disagio, lo spostamento del racconto ai giorni nostri è trattato da Mochizuki in modo così sapiente da dare l’impressione che si tratti di una vicenda contemporanea e si fatica anzi a riconoscere in filigrana l’epoca rappresentata nell’originale. Eppure il manga si mantiene fedele al racconto in modo sorprendente.

Uno schivo autore di culto
Conquistato dalla lettura del primo volume, e in attesa degli altri, avrei voluto sapere tutto su Mochizuki Minetaro, ma non sono riuscito a trovare molto. È un personaggio defilato, che concede poche interviste. Defilata è anche la sua posizione nel mondo del manga. Sebbene la sua reputazione sia consolidata e abbia ricevuto numerosi riconoscimenti, piuttosto che una star è considerato un autore di culto. Chiisakobe si distacca molto dalle sue opere precedenti sia per il contenuto che dal punto di vista grafico. Dragon Head, il suo manga più famoso, di cui esiste anche una traduzione italiana, è la storia di tre ragazzini che, sopravvissuti a un terremoto devastante, si muovono in uno scenario apocalittico.

Come in altri manga «distopici», le immagini sono cariche, forse perché un affollamento di segni è più adatto a esprimere un mondo in balia del caos. Ma già qualche anno più tardi, in Tokyo kaido, storia di bambini dotati di superpoteri, vediamo le tavole farsi più vuote e disadorne, in uno sviluppo che culminerà nel nitore assoluto di Chiisakobe.

Poche volte il concetto di Less is more è stato messo in pratica con tanta efficacia. È come se ogni segno superfluo si autocancellasse per lasciare spazio solo a quelli strettamente necessari. Grazie a questo esercizio di economia estetica, ogni minimo particolare risalta e acquista significato, ma soprattutto la sensibilità del lettore si fa più acuta. I manga sono spesso oggetto di una lettura rapida e distratta, ma Chiisakobe impone un’attenzione maggiore. Mochizuki ci comunica le informazioni necessarie attraverso il testo, composto dagli scarni dialoghi tra i personaggi e dalle didascalie in cui il protagonista, Shigeji, narra la vicenda in prima persona. Ma la parte più interessante sta nel non detto: le emozioni e i pensieri nascosti dei personaggi vanno carpiti attraverso, osservando il loro body language o anche alcuni dettagli fisici o dell’abbigliamento. Per esempio quando il racconto si apre con la notizia di un incendio che ha distrutto la sede dell’impresa dei genitori di Shigeji, causando la loro morte, il testo non ci illumina sui suoi sentimenti, ed è l’immagine del suo corpo, rannicchiato in posizione fetale, a parlarci. L’incapacità di Shigeji di comunicare, di esprimere il suo dolore, e allo stesso tempo l’ostinazione con cui rifiuta l’aiuto di presunti benefattori, lo rende inviso ai lavoranti dell’impresa, con cui prima di allora non aveva avuto contatti e che lo considerano un estraneo. Questo giovane dal viso coperto da una lunga capigliatura e una folta barba si è fino a quel momento isolato dai genitori e dall’impresa familiare.

Qualche flashback ogni tanto getta luce sul suo passato: veniamo a sapere di viaggi solitari e avventurosi e di una passione maniacale per la lettura. Quando Shigeji assume il comando, prendendo decisioni sgradite agli operai, la sfiducia nei suoi confronti è evidente. Alcuni si licenziano, altri tentano di sabotare il suo lavoro, e altre disgrazie sono in agguato. Anche a casa i problemi non mancano. Per aiutarlo nei lavori domestici, gli uomini dell’impresa gli hanno trovato una giovane donna, Ritsu, che Shigeji conosceva da bambino.
Immagini pulite e sensuali
Ritsu, che ha perso pure lei la madre da poco, porta però con sé alcuni ragazzini rimasti senza tetto, in quanto l’incendio ha distrutto anche l’orfanotrofio in cui vivevano. Cinque bambini senza famiglia, traumatizzati, problematici, che inizialmente Shigeji rifiuta ma poi si convince ad accogliere. Alle incomprensioni sul lavoro si somma quindi la difficoltà di gestire questa nidiata di piccoli ribelli. E mentre è impegnato a districarsi in tanti problemi, le linee che disegnano l’immagine di Ritsu, pulita e sensuale, ci fanno intuire che nuovi sentimenti potrebbero complicare ulteriormente il quadro.

Mochizuki ha dichiarato di essere stato influenzato, nella creazione di Chiisakobe, dalla tragedia che nel marzo 2011 si è abbattuta sul Giappone (terremoto-tsunami-incidente nucleare), e le tracce del trauma si percepiscono in modo distinto. Il racconto esprime la difficoltà di rialzarsi da una sciagura e il conflitto tra il dovere della solidarietà e l’egoismo. Shigeji, vincendo la tentazione a fuggire come ha fatto in passato, si affida ai due principi che il padre gli aveva trasmesso: umanità e volontà. È nella capacità di restare coerente con le proprie idee, di integrare questi due valori, importanti per Mochizuki come lo erano stati per Yamamoto Shugoro, che Shigeji troverà la salvezza e diventerà un uomo completo. Solo allora il lettore potrà scoprire il suo viso, rimasto fino alla fine nascosto da barba e capelli, incontrare il suo sguardo. Oltre il piacere di una rappresentazione grafica incantevole nella sua sobrietà, Chiisakobe ha in serbo per il lettore una piccola lezione di etica che nell’Italia di oggi rischia di apparire fuori moda, ma forse per questo ancora di più colpisce nel segno, con forza e in profondità: abbandonare la ricerca di un facile consenso, essere solidali, umani e fedeli a se stessi.