Dopo un lungo apprendistato nel suo paese, l’Uganda, dove ha scritto e pubblicato in inglese e in luganda (la lingua dei Ganda, l’etnia principale) Jennifer Nansubuga Makumbi è approdata al primo romanzo Kintu (tradotto restituendo la ricchezza dei ritmi e delle variazioni di tono da Emilia Benghi, 66thand2nd, pp. 457, € 20,00) che uscì nel 2014 dall’editore kenyota Kwani Trust, avendo vinto l’anno precedente il «Kwani? Manuscript Project», competizione per manoscritti inediti di autori africani.

Nonostante il grande successo raccolto in tutta l’Africa anglofona, il romanzo venne inizialmente rifiutato da diverse case editrici britanniche, che lo trovarono forse eccessivamente «africano» per la sua lingua alternativamente troppo complessa o troppo colloquiale, con continui cambi di registro, corrotta dall’uso frequente di vocaboli luganda, in un singolare tentativo di tradurre l’oralità in scrittura.

Una saga familiare
Sarà parsa forse spiazzante anche l’utilizzazione di nomi diversi per indicare lo stesso personaggio o l’obliqua attenzione dedicata al passato coloniale dell’Uganda: Makumbi mostra, in effetti, una originale capacità di usare la lingua e le convenzioni narrative europee, addomesticando l’una e le altre per costruire un universo alternativo, certo accessibile a tutti, ma risonante delle sensibilità e dello spirito del suo paese al quale in primo luogo si rivolge.

Kintu è, infatti, come più volte ha affermato l’autrice, che si è rifiutata di apportare grandi modifiche al testo, un libro immerso nella cultura ugandese, lungo un ampio arco temporale: racconti biblici, riti magici, usi tribali, orgoglio maschile, guerra civile, oppressione coloniale, dittatura, malattia mentale si fondono tanto alle vicende dei protagonisti quanto alla storia ugandese. Sebbene il passato coloniale non occupi, volutamente, un posto centrale, Makumbi si mostra consapevole di quanto l’Europa sia entrata nelle viscere dell’Uganda e dell’Africa tutta.

Uno dei personaggi principali del libro paragona il paese a un paziente operato da un chirurgo che, dopo avergli amputato gli arti, trapianta sul torso nero braccia e gambe europee. «Quando l’africano si svegliò, l’europeo si era trasferito a casa sua. Guardandosi allo specchio, l’Africa si vide mostruosa. Negli occhi degli altri vide repulsione, il motivo per farsi del male e odiarsi».
L’intreccio riguarda una saga familiare in cui la maledizione che perseguita la dinastia dei Kintu accompagna la storia dell’Uganda dalla seconda metà del Settecento fino all’inizio degli anni duemila, in una continua oscillazione tra la realtà e il mito e tra il presente e il passato con il secondo che radica inestricabilmente il primo e lo abita con una forza straordinaria.

Un prologo, dai ritmi incalzanti, apre la narrazione sul 5 gennaio del 2004 e, con poche scene folgoranti, descrive il linciaggio di Kamu Kintu, scambiato per un ladro, da parte di una folla inferocita. La violenza si spegne in una sorta di apatico disinteresse e il capitolo si chiude con una nota di rassegnata amarezza mentre tre venditori del mercato accennano alla maledizione legata a quel nome.

I cinque capitoli successivi sembrano tracciare il percorso che conduce a questo tragico evento, partendo appunto dalla maledizione che colpì la genia dei Kintu a metà del XVIII secolo per responsabilità del capostipite, Kintu Kidda, governatore, ppookino di una provincia regno di Buganda, colpevole di aver provocato la morte del suo figlio adottivo e di non avergli dato una adeguata sepoltura. Un destino infausto segna le successive generazioni e le drammatiche storie di quattro componenti della famiglia, vittime di quella maledizione: l’inquieta Suubi, il predicatore evangelico Kanani, il vedovo Isaac e l’intellettuale, educato in occidente, Misii, uniti nello sforzo di liberarsi del fardello che pesa sulla loro anima.

Varianti dell’alienazione
Nell’ultimo capitolo tutti i fili si ricongiungono, ma come la storia di Kintu Kidda, dalla quale tutto sembra iniziare, affonda in un passato ancora più remoto cosi la conclusione non si presenta come una soluzione definitiva, tutto si collega a quello che è già avvenuto e lo trascina nel futuro come se nulla, insomma, passasse mai davvero. Un andirivieni costante tra piani diversi caratterizza tutta la struttura narrativa del libro tra la dimensione mitica e quella storica, tra pensiero magico e razionalità, tra tradizione e religione, tra l’alienazione come sciagura e l’alienazione come dono.

Nello svolgersi delle storie, il tempo subisce una serie di deformazioni, a volte si dilata rendendo opaca la separazione tra le generazioni in una sorta di continuo presente e talvolta si concentra su un singolo episodio, una conversazione o uno stato d’animo, facendogli occupare tutto il tempo e tutto lo spazio del racconto. Nella mitologia Ganda, Kintu rappresenta il primo uomo, l’equivalente di Adamo nella tradizione ebraico cristiana, e il primo re del Buganda, ma nella lingua luganda significa anche cosa: la contraddizione è tuttavia solo apparente in un mondo in cui i confini tra la realtà umana e quella fisica sono necessariamente incerti e labili.