Secondo uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour il 7 agosto, nel mondo è diffuso il pregiudizio che gli atei sono potenzialmente inclini a compiere azioni dannose e moralmente depravate. L’idea che le persone cedono al male se non temono la punizione degli Dei che vedono tutto sembra ancora dominante.

Lo studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, coordinato da Will. M. Gervais dell’Università del Kentucky, ha interessato 3.000 persone di 13 paesi dei cinque continenti: Finlandia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Olanda, Repubblica Cieca, Australia, Isole Mauritius, Hong Kong, Stati Uniti, Cina, Emirati Arabi, Singapore, India. Ad eccezione di Finlandia e di Nuova Zelanda, in tutti i paesi presi in considerazione il pregiudizio nei confronti dell’ateismo è elevato, in particolare negli Stati Uniti, negli Emirati Arabi e in India.

In un epoca in cui crimini orrendi vengono compiuti da fanatici religiosi di vario orientamento, il risultato della ricerca può apparire stupefacente. A pensarci bene esso è, invece, coerente. L’azione fanatica religiosa con la religione di per sé non ha molto a che fare. Il credo religioso corrisponde storicamente all’esigenza dell’uomo di far fronte alla paura della morte e a quella, ad essa strettamente connessa, di sentirsi alla mercé delle forze esterne della natura e/o di quelle interne pulsionali, psichicamente impotente a gestire il loro impatto.

In definitiva Dio è il principio di sicurezza che consente la coesione di un apparato psichico, altrimenti passibile di destabilizzazioni preoccupanti. Ispira la costituzione e il funzionamento di istituzioni investite psichicamente che regolano dall’esterno emozioni, sentimenti, comportamenti e relazioni umane. Vista in questa prospettiva la “religiosità”, non necessariamente legata a una figura divina e spesso associata a un ideale o a un ipotetico “sguardo di Dio”, fa parte di ogni esperienza umana: non è su questo piano che si distingue l’ateo dal credente.

Il fanatico religioso – lo sterminatore che agisce come messaggero di morte – si identifica con il terrore che il credere in un Dio cerca di combattere. Costituisce la punizione come principio di ordinamento e la trasforma da custode delle credenze e dei dogmi in regola a sé stante e implacabile. Visto in questa prospettiva il fanatico è senza Dio, un a-theos.

La distinzione del religioso iperbolico che cade fuori dallo spazio della sua fede, o di colui che fa di un’idea impersonale del mondo un dogma a cui assoggetta il vivere, dall’ateo vero e proprio, il quale non si riconosce in regole della vita provenienti da un’autorità divina o da un principio astratto ordinatore dell’esistenza, è dirimente. Quest’ultimo non affida il senso di equilibrio della sua posizione nel mondo a forze o a principi esterni superiori al suo desiderio. Si avvale, invece, della sua capacità di differenziare tra ciò che dà senso e gusto alla vita e ciò che si rivela morto al gusto del vivere.

Però che è difficile riconoscere, e in effetti la grande maggioranza degli intervistati nei 13 diversi paesi non si dimostra in grado di farlo, è la diversa incidenza che hanno nella distinzione tra bene e male, l’imperativo morale che limita preventivamente il desiderio, rendendolo inoffensivo in partenza, e il principio etico di una passione responsabile la cui soddisfazione è intrinsecamente legata alla libertà del suo oggetto.

Il primo definisce il giusto come verità che trascende la propria esperienza e agisce perlopiù come censura. Il secondo lega la verità alle trasformazioni reali del rapporto con l’alterità che richiedono il suo rispetto.