Dobbiamo forse chiederci – come predicò Gesù – se non sia meglio rinunciare a resistere al male? Per combatterlo più efficacemente?

La domanda ritorna nel bel film di Nuri Bilge Ceylan Il regno d’inverno: la solleva insistentemente la sorella del protagonista Aydin, un intellettuale benestante, ex attore, che si illude di poter cambiare il mondo scrivendo impegnati articoli per un giornale locale. Ma che si rivelerà molto più «abile» nell’usare violenza psicologica verso la giovane moglie, che cerca una propria autonomia impegnandosi in azioni concrete di intervento nel mondo rurale e povero che la circonda. Non per caso l’albergo che Aydin conduce nelle rocce della Cappadocia è intitolato a Otello…
Nel film l’inquietudine, l’intelligenza e le passioni femminili interrogano in modo più acuto e vero l’esistenza e il rapporto con la realtà. Il che mi ha fatto pensare a un dialogo a più voci, a proposito delle donne che in Calabria combattono la mafia, che mi ha segnalato Franca Fortunato, amica femminista e giornalista.

C’è anche uno scambio tra Annarosa Macrì, brava giornalista e scettica sulla maggiore capacità delle donne di «combattere il male», e Alessandra Cerreti, magistrata della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.

Dice Annarosa: era stata una illusione credere che la scelta di numerose donne di uscire dall’omertà potesse produrre «una grande spallata alla mafia». «Non è stato così – prosegue sconsolata – molte di loro hanno pagato il loro coraggio con la vita, quelle che sono sopravvissute l’hanno pagato con una specie di ergastolo, quello della solitudine e della emarginazione».

Risponde la magistrata: «Al contrario, il ruolo di queste donne è stato determinante in numerose indagini, consentendo l’arresto ( e, per alcuni, già la condanna) di decine di persone e il sequestro di beni per svariati milioni di euro. La ’grande spallata alla mafia’, pertanto, c’è stata ed è ancora in corso. Ciò è stato possibile grazie a una serie di fattori concomitanti, tra i quali ha certamente avuto un ruolo l’evoluzione culturale in atto tra le donne che vivono in ambienti mafiosi. La ‘ndrangheta – continua la magistrata – è un’associazione criminale tipicamente maschilista ma le donne o, quantomeno, alcune tra le più coraggiose e determinate (sono personalmente convinta che ce ne siano altre pronte a cambiar vita) hanno iniziato ad avere consapevolezza delle possibilità di vita alternative a quel sistema di regole ancestrali che le obbliga a vivere in asfissianti confini etero determinati». Dunque, per quanto drammatiche e difficili, e malgrado il sacrificio di alcune vittime per vendetta, non si tratta di scelte che conducono a «ergastoli».

E Annarosa conclude: «Lei mi ha insegnato due cose: prima di tutto il rispetto profondo che si deve nei confronti di chi ha la forza di rompere un muro di potere e di oppressione (e qua, lei mi dice, non contano i numeri, ma l’intensità irreversibile della denuncia), e poi la cautela con la quale certe parole (ha ragione: sono come le pietre selezionate dall’artigiano che costruisce un muro a secco) devono essere scelte, parlando di temi delicati, per non creare scandalo ed essere fuorvianti».

La corrispondenza è avvenuta sul giornale calabrese Il Quotidiano. Un’occasione per discuterne ancora ci sarà il 25 prossimo, nella sala della Giunta provinciale a Catanzaro, dove intorno al libro Sovrane di Annarosa Buttarelli, si parlerà dell’«autorità femminile al governo».