Edith Bruck, ungherese, deportata ad Auschwitz tredicenne, con i genitori, due fratelli e una sorella, fortunosamente scampata alla morte, ma non alla decimazione dei suoi cari, sceglierà dopo il 1954 l’Italia come il paese d’adozione e dell’amore, avendo lì incontrato e sposato il regista e poeta Nelo Risi.

AUTRICE NOTA in Italia soprattutto come testimone straordinariamente sincera e limpida del genocidio ebraico che ha raccontato, insieme ad altri temi ricorrenti, in racconti, romanzi, raccolte poetiche, testi per il teatro, la televisione, la radio, il cinema, scritti nella sua seconda lingua, l’italiano. Idioma, adottato e amato come il paese scelto per vivere, ma che resta pur sempre quella «lingua non sua» la quale, tuttavia, in virtù di tale non appartenenza, divergenza consustanziale tra pensiero ed espressione, le consente di tenere a distanza, nella scrittura, quell’incandescenza dolorosa e angosciante del ricordo, della memoria privata-pubblica che riattiva nel tempo il dolore della perdita, scandaglio onnipresente nei suoi componimenti poetici. Ricompaiono oggi con il titolo Versi vissuti (Edizioni Università di Macerata, pp. 243, euro 14), meritoriamente raccolte in un unico volume con perizia e passione da Michela Meschini, tutte le poesie pubblicate tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento, uscite originariamente in tre piccoli volumi oggi introvabili: Il tatuaggio del 1975, In difesa del padre del 1970 e Monologo del 1990.

IN QUESTO PREZIOSO LIBRO il corpus poetico, intensamente autobiografico, di Edith Bruck trova finalmente una casa, la dimora per i suoi «versi vissuti», in cui l’assenza di odio e di rivalsa per il male subito, si riconnette all’amore incondizionato per il mondo che le fa sentire profondamente il proprio dolore come un frammento, non più significante di altri, del dolore del mondo, consentendole, per tale via, di dare valore e spessore alla sofferenza altrui oltre che alla propria.
Nella costellazione poetica di Edith Bruck, infatti, la macrostoria è la scena in cui l’orrore, la violenza e la malvagità umana che si abbattono sui singoli individui, sino a stritolarli, s’intrecciano con le microstorie personali e quotidiane, quelle dell’abbandono e della solitudine, che ella può rischiarare grazie alla frequentazione attiva con una memoria mai completamente privata né per questo solo pubblica.
Universo simbolico in cui, come in un gioco di specchi, si rifrangono le parole di altre autrici, di altre donne, di altre ebree come Hannah Arendt, Simone Weil, Etty Hillesum, Edith Stein, tutte in un modo o nell’altro segnate dalla catastrofe della Shoah.

SE DUNQUE l’intenzione che anima queste poesie è quella di «poetare il male» lo scopo può essere raggiunto anche grazie alla solitudine cantata, dimensione intima per eccellenza, che scaturisce da una ferita irrimarginabile, da una perdita senza recupero, da un’assenza intesa come dimensione fisica e metafisica, logica e ontologica, storica ed esistenziale.
Il dolore privato, dunque, funge da detonatore per rammemorare l’immensa sofferenza collettiva, e non c’è sacrilegio in questo annodarsi del patimento amoroso con la perdita ultima e irrimediabile della propria famiglia, quasi interamente inghiottita dal male totalitario, non c’è sacrilegio nel chiamare il dolore col suo nome: «Non mi riconosco più/ io che sotto i fari/ avanzavo rasente i muri/ io che per un pugno/ di pane rischiavo la vita/ non mi riconosco/ oggi che ho tutto e niente/ senza di te».
Così quei «dolori che col tempo maturano e danno i loro frutti in versi», come ella stessa si esprime in quella lingua «non sua» che diviene la cifra del suo poetare e che produce l’effetto di rendere visibile, leggibile il mondo invece di evocarlo; danno anima a un linguaggio quotidiano, «terra terra» direbbe Wittgenstein, che funziona come microscopio sulla vita individuale e come telescopio rispetto alla fatticità storica.

POESIA COME PONTE gettato dalla memoria al presente, dalla storia al quotidiano, dall’io al noi che ripercorre il martirio subito tra Auschwitz, Dachau e Bergen Belsen, nel ricordo assillante di una madre e di un padre perduti per sempre, danno irreparabile e permanente che aiuta a scovare e rivelare il «male di mondo».
Per chi parla Edith Bruck? A chi dà voce la sua lingua poetante? A loro, a «noi»: «per noi sopravvissuti/ è un miracolo ogni giorno/ se amiamo, noi amiamo duro/ come se la persona amata/ potesse scomparire da un momento all’altro/ e noi pure. E ogni sofferenza/ fa parte di una unica/ che pulsa col nostro sangue./ Noi non siamo gente normale/ noi siamo sopravvissuti/ per gli altri/al posto di altri./ La vita che viviamo per ricordare/ e ricordiamo per vivere/ non è solo nostra./ Lasciateci…/ noi non siamo soli».