Il male assoluto si insinua nel Ghiaccio delle coscienze
Filippo Dini e Mariangela Granelli – foto di Luigi De Palma
Visioni

Il male assoluto si insinua nel Ghiaccio delle coscienze

A teatro Prodotto dallo Stabile torinese, Filippo Dini porta in scena il thriller psicologico di Bryony Lavery. Un uomo e due donne si confrontano davanti a un crimine dei più orrendi
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 aprile 2022

Uno spettacolo inquietante, a tratti davvero «da brivido». Da far gelare il gusto, o meglio letteralmente il sangue. È Frozen, ovvero Ghiaccio (produzione delllo Stabile torinese, in scena al Teatro Gobetti fino al 10 aprile) un testo attualissimo, benché scritto quasi un quarto di secolo fa da Bryony Lavery, autrice inglese prolifica e multiforme (testi drammatici ma anche musical di successo nel West End, e poi radio e televisione), femminista e libertaria. Più che raccontarci una storia, Lavery ci mette davanti a una situazione molto violenta, tentando e aprendo possibili vie d’uscita. La vicenda cresce e si articola attraverso tre diversi personaggi, che solo parzialmente avranno occasione di incrociare in scena le loro strade. Lui è uno stupratore e assassino seriale, condannato per aver stuprato e ucciso su un furgone una bambina. Le due donne sono la madre di una delle sue vittime e la psicologa che approfondisce la ricostruzione del crimine per completare un suo studio.

UN UOMO E DUE DONNE davanti a un crimine tra i più orrendi, che anche nella memoria e nelle indagini pesa sempre più nell’evolversi delle loro vite, anche se in direzione diversa. Lui, combattuto tra depressione e orgoglio per quello che ha fatto. La madre, che dopo aver mandato la sua figlioletta decenne a portare un paio di forbici alla nonna (una Cappuccetto rosso significativamente aggiornata) combatte con qualsiasi arma (anche le più vanitose, sfidando spesso il patetico) per liberarsi di quel macigno nella memoria e nella coscienza. La scienziata di mediatiche pretese, che si avvicina sempre più pericolosamente all’assassino per verificare i propri teoremi psyco, e dar loro pubblica vita e attendibilità.
È molto interessante il percorso teatrale di Filippo Dini che in un solo anno, segnato e per tutti condizionato dalla pandemia, apre e sfoglia in scena un ventaglio di umanità, di pratiche e modelli sociali attraverso significative esperienze individuali. Prima una insolita lettura molto «contemporanea» della ibseniana Casa di bambola. Poi il confronto tra due modelli maschili di comportamento nella Londra affluente, ma senza più certezze, al pub The Spank di Kureishi. Ora con questo Ghiaccio di origine pure londinese (questi ultimi due testi entrambi tradotti da Monica Capuani, qui insieme a Massimiliano Farau). Il microscopio delle sue regie stringe l’obiettivo, e insieme allarga il campo, dentro una coscienza di massa apparentemente indecisa davanti a modelli tanto contrastanti, per posizione sociale, formazione e consapevolezza delle varie identità protagoniste.

SULLA SCENA di Ghiaccio, che in realtà bolle ad altissima temperatura, lo scontro che avviene tra quelle combattute creature è ancora più complesso. Non c’è moralismo, anche se una qualche morale sarebbe invocata, ma alla fine un fantasma di «perdono» affiora come via di uscita (o almeno la sua possibilità) da quel desolato panorama urbano. Non c’è tuttavia pacificazione, e tanto meno «lieto fine», dopo che quella pentola gelida e venefica è stata scoperchiata. Il Ghiaccio è quello delle coscienze, dei personaggi come degli spettatori che vi hanno preso parte. Probabilmente scioccati, ma anche finalmente consapevoli di un teatro che è coscienza e maturazione, che nessun sipario può chiudere o coprire.
Uno spettacolo che richiede anche agli attori uno sforzo immane di partecipazione e di controllo minuzioso di ogni parola e di ogni movimento. Cui Filippo Dini, protagonista oltre che regista, dà misura e inquietante verità, tra le contraddizioni e la follia del suo mondo, in un furgone/prigione che non riesce a contenere e limitare le sue folli visioni e i conseguenti desideri. Mariangela Granelli è la mater dolorosa dai contrastanti sentimenti. Lucia Mascino l’ambizione pretenziosa della scienza. La scena da penombra coscienziale è di Maria Spazzi con le luci di Pasquale Mari, i costumi di Katarina Vukcevic.

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