Un format consolidato quello del festival della filosofia. Nessuno, agli inizi, avrebbe mai scommesso sul fatto che le lezioni in piazza su temi poco «spettacolari» avessero la capacità di attrarre attenzione. Invece è proprio questo ciò che è accaduto. Il triangolo che ha come vertici Modena, Carpi e Sassuolo è diventato una delle tappe scelte da centinaia di migliaia di uomini e donne per fare «turismo culturale». Per comprendere il fenomeno non serve però quell’attitudine radicata tra gli intellettuali che vedono nella cultura di massa un’antitesi alla qualità e all’autenticità di una buon manufatto culturale. C’è produzione culturale se esiste un’industria dove case editrici, università, televisione e kermesse di massa sono i propri atelier e momenti distributivi. Il festival della filosofia è divenuto, nel tempo, nodo di questa rete produttiva.

Senza scomodare l’invocazione della necessaria autonomia dell’intellettuale dall’industria culturale c’è da annotare che non sempre il successo di pubblico sia da registrare come indice di vitalità della produzione culturale. Da questo punto di vista i festival culturali scontano una evidente difficoltà: l’individuazione di temi e autori innovativi. Ad esempio, al festival della filosofia ci sono nomi nuovi accanto a quel gruppo di studiosi divenuti una presenza stabile a Modena, Carpi e Sassuolo, ma sono nomi che non sono accompagnati da un’aura di innovazione teorica, bensì di conferma di un ordine del discorso consolidato. La responsabilità della scelta di nomi «rodati», insomma di «garanzia» per attirare l’attenzione può certo essere assegnata alla crisi economica, che morde anche i bilanci e le casse di iniziative di successo, ma non è solo questo che spiega la presenza dei «soliti noti». Inoltre, il festival emiliano è gratuito, a differenza del suo fratello maggiore di Mantova. Il suo format è stato reso possibile dall’apporto sia di sponsor privati che di finanziamenti pubblici. Se c’è stata riduzione di fondi, è da lì che ha avuto origine. La riproposizione degli stessi intellettuali va semmai cercata in quel «blocco» della produzione culturale, incapace di fare i conti con una realtà sociale segnata da conflitti, inquietudini, forme di vita che non sempre sono riassorbiti di un meccanismo produttivo che in questo settore tende comunque a standardizzare l’offerta di prodotti.
In un saggio, contenuto nel volume La fine della cultura (Rizzoli) Eric Hobsbawm si dilunga a lungo sul successo di festival dedicata alla musica classica o al jazz. Lo storico inglese lo saluta favorevolmente, avvertendo tuttavia che esso non è proporzionale alla vitalità di tali manufatti culturali. Un’indicazione preziosa quella di Hobsbawmn per capire l’offerta emergente nei tanti festival culturali. Più che luoghi dove vengono messe in piazze sperimentazioni, percorsi culturali eterodossi, si preferisce infatti un ordine del discorso mainstream.

La domanda di cultura di chi corre in massa a Modena, Mantova, Pordenone, Sarzana, Milano o Piacenza non va sottovalutata. La posta in gioco, dunque, sta quindi nel favorire la manifestazione di una attitudine critica tanto nella produzione che nell’accesso ai manufatti culturali. Solo così sarà possibile la circolazione di idee e percorsi di ricerca tematica e teorica eterodossi che già sono presenti dentro, fuori e contro l’industria culturale.