Una storia affascinante quella che il Musée des Arts décoratifs di Parigi ci disvela fino al 12 gennaio con una mostra coinvolgente nell’esemplare coreografia e nella impeccabile, minuziosa, ricostruzione scientifica di Raphaèle Billé e Louise Curtis. Moderne Maharajah Un mécène des années 1930 narra infatti la storia appassionata e visionaria del giovane principe indiano Yeshwant Rao Holkar II, ultimo regnante di Indore, un piccolo Stato i cui territori, dal gennaio 1950, tre anni dopo l’indipendenza dell’India dal Regno Unito, divennero parte del Madhya Bharat poi del Madhya Pradesh.
È la storia fiabesca e raffinata di un uomo educato alla cultura occidentale senza abdicare alla propria, al contrario compiendo un ricercato esercizio di sintesi fra tradizione indiana e audacia modernista internazionale. Processo che si attua negli anni trenta nel progetto di Manik Bagh, il «giardino delle pietre preziose», un palazzo dall’architettura che rimanda certamente più alla severa tipologia degli edifici berlinesi del decennio precedente che alle spettacolari dimore reali delle corti indiane, o al fresco stile neo-rinascimentale della residenza paterna movimentato al suo interno da note barocche e rococò, paradigma di un già definito processo di occidentalizzazione.
La morte precoce della maharani
Un processo che il giovane principe cavalca a sua volta affinando sempre più il suo gusto elegante alla sofisticata sensibilità delle nuove creazioni, instaurando così un vero ponte artistico tra Parigi e l’India in quella doppia identità fra due mondi e due visioni che siglerà il segno della sua personalità complessa e idealista. A condividere la finezza di uno sguardo orientato verso l’Europa è la giovane sposa dalle stesse origini Marathi, la maharani Sanyogita Devi, incantevole, delicata compagna di questa straordinaria avventura che subirà, alla sua precoce, drammatica morte nel 1937, un arresto improvviso. Solo pochi anni frenetici, quindi, che assistono tuttavia al dispiegarsi di un’impresa eccezionale per visionarietà, compiutezza estetica e sapienza progettuale.
Tutto ha inizio a Oxford con il dottor Marcel Hardy. Suo tutore, diventerà mentore e consigliere dei primi anni del principe, designato nel 1926 a succedere al padre nella guida del regno. È lui a introdurlo al giovane marito della figlia, l’architetto Eckart Muthesius, cresciuto nel solco di figure significative come Charles Rennie Mackintosh, amico di famiglia e suo padrino. L’incontro tra i due sarà decisivo e segnerà la stretta complicità di un progetto: «mi chiese se avrei saputo costruire il suo palazzo. Fui sorpreso dalla richiesta ma accettai senza esitazione. Fu l’inizio della mia carriera e il suo momento più alto».
Tre settimane di lavoro giorno e notte a progettare e disegnare nello studio berlinese piante e planimetrie di un edificio dalle forme moderne, dagli impianti avveniristici e dagli interni lineari e sobri. Tre settimane per immaginare una struttura tra utopia e realtà; tre anni per tirare su il sogno contemplato. I progetti per Manik Bagh riempiono allora le pagine delle riviste internazionali di design e architettura, quasi un primo manifesto della possibilità di viaggiare dell’avanguardia, come poi avverrà con Le Corbusier e Louis Kahn, anche se, una volta radicati nel paese esotico, dovranno essere rivisti e modificati secondo luce e materia del luogo. I film amatoriali girati da un Muthesius molto presente sul cantiere, dove file di operai trasportano mattoni e calce, evidenziano la contraddizione sorprendente tra idee moderniste e necessità costruttive, tra avanguardia e tradizione. Orientata su un asse est-ovest per rispondere alle condizioni climatiche, vento e sole, la residenza, circondata di verande, disegna una sorta di rettangolo aperto intorno al giardino moghol e alla lunga vasca.
Qui entra in scena l’altro mentore e consigliere, figura eclettica e multiforme, determinante per la frequentazione del maharajah nella Parigi degli artisti, intellettuali e collezionisti dell’epoca: Henri-Pierre Roché. Un percorso iniziatico francese segnato dal mondo dell’aristocrazia e dai suoi rituali: per i ritratti pittorici c’è Boutet de Monvel, per quelli fotografici c’è Man Ray. La visione del pittore oscilla tra un accademismo e un purismo decantati e annientati nell’estrema riduzione segnica, dove i sovrani sono raffigurati nella doppia natura cerimoniale, indiana ed europea. Contemporaneamente, la sintesi di quel dualismo la tocca invece Man Ray negli scatti della giovane coppia, nelle loro mani, nelle pose, nei profili, nella scelta degli oggetti, nel taglio della fotografia e nella folgorante manipolazione delle luci, dei suoi effetti atmosferici, onirici, medianici.
Così come lo introduce nell’universo di Man Ray, Roché accompagna il maharajah nelle scelte audaci e innovative attraverso i numerosi Salons di quegli anni che presentano arredi e motivi del nuovo design e dei suoi geniali creatori. È una vera immersione nella modernità in cui il principe e la sua affascinante sposa si muovono con naturalezza e grande classe scegliendo e adattando al progetto, ormai centrale nella loro stessa esistenza e unione, tutti i singoli elementi e i loro dettagli. Tavoli, sedie, divani, chaise-longue, tappeti, scaffali, librerie, armadi, appendiabiti, letti, specchiere, scrivanie, paraventi, lampade, tutti insieme a compiere e perfezionare la loro opera d’arte totale: una cornice nella quale gli oggetti si dispongono per un’affinità orchestrata. Oggetti divenuti iconici come la Transat di Eileen Gray, i mobili di Louis Sognot, Emile-Jacques Ruhlmann, Le Corbusier, Jeanneret e Perriand, Marcel Breuer, le tavole imbandite di Jean Puiforcat, i gioielli di Chaumet e Mauboussin, i tappeti di Ivan Da Silva Bruhns dalle linee geometriche che rispondono alle tonalità del palazzo, i congegni luminosi e futuribili della casa Desny, i piatti di Jean Luce semplicemente decorati dal monogramma con colori e linee del principe.
In quel palazzo dagli ambienti pensati e definiti dallo stile più rigoroso e austero della nuova generazione di artefici, tra quelle forme sempre più affusolate nella loro espressiva essenza esteriore, il posarsi degli uccelli «nello spazio» di Constantin Brancusi rappresenta il momento più alto e sacrale della febbrile e appassionata impresa.
Due marmi, uno bianco uno nero
Un primo bronzo per lo studio privato del sovrano viene acquisito dopo la visita nell’atelier dell’artista tra il 1930 e il 1931, nel 1936 il palazzo ne accoglierà altri due in marmo, uno bianco e uno nero, destinati a un luogo di raccoglimento, il tempio dell’amore e della pace, il cui progetto, studiato dal principe in tutti i particolari e affidato allo scultore rumeno, non verrà mai realizzato nonostante il viaggio dell’artista in India all’inizio del 1938 e la successiva trasformazione in un mausoleo dedicato al ricordo della maharani.
Materia sublimata nello slancio di una forma dove si concentrano tutte le forze del visibile nella perfetta misura della sostanza che rivela l’idea, l’energia stessa e l’astrazione di una solenne, mistica ascesi. Ogni uccello nasce «da un’ispirazione nuova, indipendente da quella precedente. I miei due ultimi, il nero e il bianco – scrive Brancusi al suo committente – sono quelli dove più mi sono avvicinato alla misura giusta – e mi sono avvicinato a quella misura via via che mi liberavo di me stesso». Smaterializzazione della sostanza in una dimensione contemplativa dove le due anime si ritrovano nello spiritualismo e nell’illuminazione di un archetipo universale.