Da una scatola di negativi acquistati per quattrocento dollari in un’asta, nel 2007, a un deposito pieno zeppo di pellicola non sviluppata, cartacce e cianfrusaglie di ogni sorta, la fantastica storia di Vivian Maier è sbocciata a sorpresa nelle mani di un giovane storiografo della città di Chicago, John Maloof. Una Mary Poppins del ricco sobborgo di Highland Park (quello dove sono alcune delle case più note di Frank Lloyd Wright) con un falso accento francese (era nata a New York, ma aveva parenti in Alsazia) e l’occhio di un Weegee, Maier, era una magnifica fotografa di strada ma lo sapeva solo lei. Perché quasi nessuno, prima che Maloof si dedicasse alla diffusione della sua opera, aveva mai visto le decine di migliaia di immagini che ha prodotto.
Bianchi e neri nitidissimi, colori sgargianti, un istinto naturale per i gesti e le emozioni umane, grande precisione di dettaglio, le prime foto di Maier, scattate tra il 1950 e il 1970, che Maloof ha postato su Flickr, dopo che il Moma non aveva dimostrato interesse, hanno avuto un riscontro vastissimo e immediato. Nel 2011 il Chicago Cultural Center le ha dedicato la prima mostra.

Da lì, racconta il film, la nanny che esigeva grossi lucchetti per isolarsi nelle sue stanze dove ammucchiava le foto insieme a montagne di giornali, è diventata un fenomeno popolare.
Finding Vivian Maier, diretto da Maloof e Charlie Siskel, è insieme la storia di questa scoperta e un tentativo di decifrare l’enigma di Maier, la cui vicenda ricorda quella di un altro grande artista chicagoano scoperto solo postumo (i suoi collage seppelliti tra giornali decrepiti), Henry Darger. Solo che Darger era un recluso, un asociale, che nella sua arte aveva inventato un mondo fantastico. Mentre lo sguardo di Maier – non solo le foto ma anche i filmini in 8mm che la lasciato- riflette un profondo engagement con la realtà che la circonda.
«Deve esserle successo qualcosa, non c’è altra spiegazione…» commenta quasi con rammarico la fotografa Mary Ellen Mark studiando alcune delle sue immagini in cui trova punti in comune con quelle di grandissimi del mezzo come Robert Frank, Helen Levitt e Diane Arbus. «Aveva tutti i numeri per essere riconosciuta come un’importante fotografa».
Intervistati dai registi, i bambini che accudiva e i loro genitori se la ricordano sempre armata della sua Rolleiflex, sempre sola, molto eccentrica (però a un certo punto ha fatto il giro del mondo)– sorpresi loro stessi di quanto poco sapevano di lei. Intuitivamente, è facile capire perché questa donna così strana sentisse un rapporto privilegiato con l’infanzia (con cui però non sempre era tenera).
Alle prese con un personaggio ermetico e abilissimo al camouflage, Maloof e Siskel scelgono la via del documentario tradizionale, lineare. È una scelta onesta, forte di una storia spettacolare, ma un po’ deludente. Come le sue foto –ancora in grandissima parte non viste- Vivian Maier deve ancora essere «trovata».