Si può scrivere del ’68 in maniera storiograficamente fondata senza perdere la «dimensione emozionale» di quel «momento rivoluzionario». Ne fornisce un esempio l’ultima pubblicazione di Ludivine Bantigny, storica dell’università di Rouen, 1968. De grands soirs en petits matins (Seuil, pp. 448, euro 25). Risultato di un lungo lavoro di ricerca, il volume ha conosciuto un discreto successo di pubblico. La prospettiva è ampia, la documentazione consultata decisamente poderosa, ma soprattutto convince il respiro di un’opera che esce dalle polemiche che hanno contraddistinto ogni decennale.

LA CRONOLOGIA breve (1967 – 1968) valorizza le mobilitazioni operaie e agrarie immediatamente precedenti all’esplosione del maggio e che vedono un primo coinvolgimento studentesco. Le tradizionali organizzazioni universitarie, impegnate contro la riforma Fouchet, stanno entrando in crisi «da sinistra». La radicalizzazione è riscontrabile nelle lotte di fabbrica del 1967 a Besançon, a Vaise e a Saint-Fons, ma anche nella campagna per il Vietnam che anticipa la miccia di Nanterre e il «Movimento 22 marzo». In questo contesto, segnato l’anno seguente dalle barricate nel Quartiere latino e dalla repressione poliziesca, Bantigny valorizza particolarmente l’apparizione di un blocco sociale unitario e diversificato che, a suo giudizio, costituisce il protagonista e, per certi aspetti, l’essenza stessa del ’68. Ci sono dentro gli studenti dei licei, i métallos della Renault e i kantangais, nonché un discreto numero di militanti da tutto il mondo che si fanno portavoce delle parole d’ordine delle lotte post-coloniali e favoriscono l’organizzazione di reti transnazionali. Scrive Bantigny: «L’idea di un conflitto generazionale (avanzata dai media), giudicata psicologizzante e depoliticizzante, viene immediatamente rifiutata. Lo sciopero generale (del 13 maggio) è una lotta di classe che non può essere mascherata come una presunta lutte des classes d’âge».

Nei capitoli centrali, l’analisi si concentra sulla composizione e le parole d’ordine dei soggetti della protesta. Le pagine più innovative sono quelle dedicate agli «agenti esterni», in particolare ai partiti, ai sindacati, e soprattutto alle reazioni di governo e polizia.
Il Pcf si mostra a dir poco prudente ed entra presto in contrasto con i gruppi gauchisti. La preoccupazione principale del partito, condivisa dalla Cgt, è mostrarsi come una forza democratica e distante dai progetti di autogestione operaia. L’altro timore è che la radicalizzazione possa isolare la sinistra portando al fallimento delle trattative con il governo. Si distingue invece l’atteggiamento della Cfdt, d’ispirazione cristiana, ma da pochi anni diventata aconfessionale, che invece sposa l’alleanza progettuale tra operai e studenti. È questo il quadro in cui il generale de Gaulle decide di indire nuove elezioni e che Bantigny mette bene a fuoco: con la polizia insofferente nei confronti della linea ambigua di Pompidou e con una parte della società civile che si organizza nei Comitati di difesa della Repubblica. Con il supporto della stampa, viene agitato lo spettro della rivoluzione comunista. Già durante il maggio, l’estrema destra scende in piazza e cerca lo scontro diretto con gli studenti.

LE ULTIME due sezioni del volume sono dedicate all’indagine degli immaginari del movimento. Attraverso lo studio dei documenti politici, ma anche delle espressioni artistiche e musicali, sono passati in rassegna i desideri, gli amori, le angosce e le paure del movimento. Il ’68 – rimarca la studiosa – è stato percepito come un momento realmente rivoluzionario, in cui componenti sociali diverse hanno coltivato quel sentimento comune che Michel de Certeau ha definito «di riappropriazione della parola». A quest’ampia ricostruzione storica non si accompagnano purtroppo conclusioni interpretative altrettanto forti. È nitida invece l’idea di una sconfitta storica del movimento, alla quale va ricondotta la successiva banalizzazione della memoria degli eventi.