A qualcuno mancano i pesci rossi da salutare e «spiare dal ponte di legno», ad altri le voci degli amici del cuore e la campanella che annuncia la ricreazione e i giochi. Poi c’è chi vuole sapere come passano il tempo sospeso i maestri e le maestre e anche se provano nostalgia per i loro bambini, gli stessi che ogni giorno accoglievano in classe per fare esperienza del mondo insieme e che adesso si ritrovano, ognuno per sé, davanti a un computer acceso in casa, a dover fare i conti con un’«aula invisibile». Sbirciando in uno spazio lontano e siderale – dal punto di vista delle emozioni – altrettanti compagni piccoli come fototessere che appaiono e evaporano sullo schermo. È La scuola senza andare a scuola, raccontata con grazia e malinconia da Giuseppe Caliceti (Manni editore, pp.154, euro 14), una specie di diario in «prima persona-collettiva» che ai messaggi in presa diretta scambiati durante i mesi del lockdown alterna pensieri in libertà, riflessioni sul sistema educativo e sulla cecità di chi non vuol vedere e sbandiera la famosa «Dad» (didattica a distanza) come la panacea per tutti i mali.

È UN LIBRO di una sincerità sconcertante, che non permette rimozioni e che elenca con lucidità (mai ideologica) ciò che non va e non potrà mai andare in quel metodo «online» ritenuto salvifico e sostitutivo. Dalla violazione della privacy attraverso piattaforme che si nutrono delle identità altrui rubando dati da rivendere al miglior offerente sul mercato, alla tristezza della non condivisione e a quel retrocedere, nella propria pratica di insegnante e nonostante gli sforzi per tenerla viva, a un’idea di scuola che in realtà la cancella e inghiotte nel buio chi non ce la fa (per scarsità tecnologica, per famiglie difficili se non drammatiche, per disabilità non seguite, per angoscia da abbandono).

UNA SCUOLA che d’improvviso svanisce – e con lei si eclissa la costruzione di una intera società – non soltanto perché la connessione, a volte, vacilla ma anche perché nessun bambino/a esce più da casa per rendersi autonomo dai suoi genitori, crescendo e imparando insieme ai suoi coetanei. È questo, in fondo, il compito primario di ogni scuola se non la si vuole intendere come arena per l’ammaestramento dei più giovani.

CALICETI E SUA MOGLIE sono maestri, formatori e anche genitori. Mentre passeggiano con il loro cane, durante i giorni del confinamento, si raccontano le storie intrecciate dei loro piccoli studenti. Vanno alla ricerca dell’alunna Sailor, che vive in un campo nomadi ed è scomparsa dai radar della Dad. Isolata socialmente, sembra perduta, ricacciata indietro proprio mentre imparava a leggere con allegria e curiosità (ma saranno i compagni a riconquistarla con lettere e regali). Cercano di combattere contro la dittatura del voto e della burocrazia che «certifica» quando la scuola è liquida, precaria, con le ore stentate, le presenze a singhiozzo, la paura che attraversa le stanze di tutti. Lavorano il doppio di prima in una situazione inedita e inaudita, non capendo più diritti e doveri (la malattia dell’insegnante in cosa consiste, nel «disattivarsi»? potrebbero esserci sanzioni per foto e video online durante le lezioni? esiste una privacy dei bambini?) e con una preparazione che si trasforma in invenzione quotidiana per mantenere caldo un legame affettivo con i bambini e i loro famigliari.

SENZA QUEI GENITORI (pure quando non perfetti), scrive Caliceti, non ci sarebbe stata nessuna scuola a distanza: se qualcosa si può salvare dalla catastrofe di ciò si è vissuto è il rinnovato patto fra famiglie e docenti. Ma non sempre va tutto bene. E il distanziamento del ritorno in classe, resta un problema aperto: gli insegnanti non sono carabinieri. Né vogliono trasformarsi.