Alcuni giorni fa la ministro Trenta ha compiuto la sua missione di rito in Afghanistan dove ha visitato il comando di Herat a guida italiana. Si è presentata in mimetica come già aveva fatto – per nulla apprezzato da chi la divisa la porta per mestiere – da un suo predecessore di nome Ignazio La Russa.

Nemmeno il messaggio rivolto al contingente è stato molto diverso anche se, in campagna elettorale, M5S in primis, si era fatto del ritiro della truppa un cavallo di battaglia. Poi, un po’ come per la finanziaria, le cose sono cambiate. La gestione del lodo afghano è passata direttamente al ministro degli Esteri Moavero Milanesi, uomo che non nasconde le sue simpatie per la Nato e che ne ha sottratto la competenza al sottosegretario incaricato dell’Asia.

Di conseguenza, benché il governo Renzi avesse programmato un ritiro di 200 soldati, il governo gialloverde si è accontentato di ritirarne solo cento. O almeno così era stato detto a ottobre. Al momento, sul sito della Difesa restano i dati al 30 settembre 2018, con «un impiego massimo di 900 militari, 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei» suddivisi tra Herat e Kabul, escluso quindi il nostro personale della logistica negli Emirati arabi.

Mentre Trump vuole ritirare parte dei suoi soldati, mentre i francesi hanno fatto le valige da tempo seguiti da altri più o meno alla chetichella, l’Italia resta impegnata con il terzo contingente per numero di uomini, solo da poco superato dalla Gran Bretagna. Restiamo dunque. E il ritiro è tanto «graduale» che persino gli americani ci battono sulla velocità dopo averci chiesto, un anno fa, di restare. Più realisti del re. E più che gialloverdi, grigioverdi.