«Il Movimento 5 Stelle rischia la “leghizzazione”, ovvero un’eccessiva vicinanza alla Lega»: la senatrice Elena Fattori lo dice chiaro e tondo, ed esplicita i dubbi che serpeggiano nella base parlamentare grillina da qualche tempo.

Coinvolgono veterani come lei ma anche neoeletti come la deputata calabrese Anna Laura Orrico che qualche settimana fa pungolata dal pubblico di un dibattito estivo sulla questione migranti aveva ammesso: «Governare con Salvini non è una passeggiata di salute». I sofferenti continuano a mettere le mani avanti sostenendo che quello gialloverde «era l’unico governo possibile». La senatrice antisalviniana Paola Nugnes, preda di attacchi da parte di elettori M5S più affezionati all’intesa coi leghisti, è stata costretta a bloccare i commenti al suo profilo Facebook.

La linea sostenuta da Luigi Di Maio nelle versioni più polemiche viene riassunta nelle chat con una formula velenosa: «Governare a tutti i costi». Come testimoniano i distinguo sulla nomina di Marcello Foa alla presidenza della Rai, il vertice domenicale tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi ha allungato un’ombra ulteriore sulla Lega oltre che su tutta la coalizione. La maggioranza potrebbe ritrovarsi a scoprire che il fantomatico contratto di governo annovera un contraente occulto imbarazzante, una presenza nient’affatto gradita ai grillini più ortodossi. È vero che agli occhi dei 5 Stelle la figura di Berlusconi come avversario da battere ormai da tempo è stata offuscata da quella di Matteo Renzi, ma il doppio forno dell’alleato leghista potrebbe risultare imbarazzante. Soprattutto se il gioco del governo non dovesse valere la candela degli obiettivi da raggiungere.

Di Maio, pungolato dall’economista Andrea Roventini (che doveva fare parte del governo a 5 Stelle ma si è fatto da parte appena si è concretizzata la trattativa del governo con la Lega), ha alzato l’asticella della «pace fiscale» rifiutando ogni ipotesi di «condono». Serve a tirare l’acqua al mulino del «reddito di cittadinanza», che in un modo o nell’altro, se pure in forma sperimentale e simbolica, i grillini vogliono assolutamente inserire nel Def.

Segnali di insofferenza arrivano, e su questioni di merito non secondarie, da territori tutt’altro che periferici. Alla festa del M5S torinese, nei giorni scorsi, è arrivata la contestazione dei No Tav, che lamentano di essere sostanzialmente ignorati dal ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, e quella di alcune maestre cui i grillini avevano promesso l’inserimento in graduatoria. Sempre dal M5S torinese è arrivato un importante distinguo dalla linea del governo a trazione salviniana: «Riconosciamo l’importanza della tutela della proprietà privata, ma consideriamo più significativo il diritto costituzionale alla salute psicofisica della persona, il diritto alla casa ed a un’esistenza dignitosa», affermano i consiglieri comunali del M5S torinese in polemica con la circolare sugli sgomberi del Viminale.

Sempre a nord, crea fratture l’annuncio dell’«autonomia» del Veneto della ministra leghista Erika Stefani. La regione, dicono i salviniani, dovrebbe ottenere deleghe su 23 materie di governo. Per il sottosegretario grillino Stefano Buffagni, che da consigliere regionale lombardo era stato tra gli artefici del voto favorevole al referendum promosso dalle giunte leghiste, sono rivendicazioni troppo esose.

Dal Veneto protesta la consigliera regionale Patrizia Bartelle, all’epoca critica sul referendum: «I dissidenti interni sono stati emarginati e perfino insultati, la propaganda aziendale ha schiacciato ogni riflessione approfondita». Dal nord, insomma, gli eletti grillini dissidenti cannoneggiano il referendum per colpire il governo. Bartelle emette una sentenza durissima: «Il laboratorio politico che avrebbe poi portato al contratto tra Di Maio e Salvini è nato in Veneto e in Lombardia, proprio dove il M5S aveva ottenuto i peggiori risultati elettorali».