Anche una forza che si autoproclama esterna alle logiche della politica ne adotta tic linguistici e formule comunicative. Era dunque inevitabile che nel Movimento 5 Stelle per giustificare scissioni o condannare le fratture scattasse l’automatismo della denuncia di «mutazioni genetiche» e deviazioni dalla via originaria.

È quello che ha fatto Luigi Di Maio: andandosene ha voluto precisare che il suo progetto politico non è «un partito personale». Ancora ieri Dalila Nesci ha detto che il partito di Conte «è già nato e ha soppiantato completamente il M5S». Per questo, sostiene la sottosegretaria al Sud, «abbiamo scelto di dissociarci da questa ennesimo contenitore politico personale».

Di fronte a un’ulteriore mini-scissione, il M5S si ritroverà più che dimezzato rispetto all’inizio della legislatura: significa che la maggior parte dei parlamentari grillini ha scelto, nel corso di questi 52 mesi, di abbandonare il simbolo con il quale era stata eletta.

Dunque, abbiamo davvero ancora che fare con il M5S? Oppure le vicende dei tre governi cui i pentastellati hanno partecipato hanno smantellato una forza politica che il suo fondatore voleva «biodegradabile», cioè capace di inabissarsi senza lasciare scorie? La premesse stesse del nuovo corso di Conte rappresentano una rottura sostanziale con i pilastri del M5S di Grillo e Casaleggio: un’organizzazione sul territorio per valorizzare le competenze (non è vero che «uno vale uno»). Nel caso dovesse rompere con il governo Draghi, si parla di un ritorno di Di Battista come garanzia di un salto indietro verso la purezza delle origini. Ma l’altro giorno, la capogruppo al Senato Mariolina Castellone, ha accolto con freddezza questa prospettiva proprio in nome dell’evoluzione del M5S. «Questa ipotesi genera entusiasmo in chi si rivede nel M5S di qualche anno fa – ha detto alla Stampa – Ma io auspico che si segua il nuovo corso rappresentato da Conte, aperto alla società civile, ai giovani, alle imprese. Diverso da quello di un tempo».

Non è un caso, infine, che la rottura che sta cambiando forma al Movimento 5 Stelle si giochi sullo stare o no al governo. Le forze politiche europee degli ultimi dieci anni che per semplicità chiameremo «populiste» (di destra o di sinistra) erano leggere, verticistiche, tutte basate sui front-men e sulla comunicazione. Tutte sono cresciute velocemente ma non potevano mantenere il livello di consenso ottenuto sulla spinta di moti di indignazione, senza organizzazione e corpi intermedi. L’unica possibilità di dare senso alla loro guerra lampo era quella di andare al governo, e di farlo prima che le bolle elettorali scoppiassero. C’è riuscita Podemos in Spagna, che pure sta cercando di darsi la forma di un partito. Non ci sono riusciti Nigel Farage, che si è eclissato dopo aver ottenuto l’obiettivo fondativo della Brexit, e Jean-Luc Mélenchon, che nel frattempo ha cercato di costruire una coalizione allargata alla società civile e alle forze della sinistra francese. Di Maio scelse di rompere una delle regole dettate dai fondatori («mai alleanze») per allearsi con chiunque pur di stare al governo. «Stare all’opposizione è inutile», ha detto l’altro giorno Davide Crippa. Dimostrando che la scissione di Di Maio non è stata un infortunio ad opera di un drappello di traditori ma l’ultimo atto del M5S di governo. Con questo Conte deve misurarsi.