Dieci mesi fa bastò la discesa a Roma di Beppe Grillo, di concerto con il lavoro ai fianchi della truppa degli eletti di Luigi Di Maio, per convincere i parlamentari del Movimento 5 Stelle che Mario Draghi era l’uomo giusto per il governo della transizione ecologica. Per far passare addirittura l’idea che l’ex presidente della Bce fosse un grillino, come disse il fondatore ai suoi. Adesso bisogna fare i conti con la prospettiva concreta che Draghi vada al Quirinale. E per i 5 Stelle è per certi versi un passaggio per i 5 Stelle meno traumatico ma non per questo del tutto indolore.

Il primo nodo è emerso quasi subito, poche ore dopo la conferenza stampa del presidente del consiglio, quando dallo staff di Giuseppe Conte è partita una nota informale che invitava alla cautela in nome della «continuità». «C’è ancora tanto lavoro da fare – hanno detto dai vertici M5S – è appena stato rinnovato lo stato d’emergenza e i dati sui contagi preoccupano tutti gli italiani». Il messaggio è stato interpretato come un segnale di freddezza nei confronti della prospettiva di Draghi al Quirinale, ma le cose non stanno esattamente così. Queste parole sono rivolte più all’interno del M5S che all’esterno. Non sono indirizzate agli alleati del Partito democratico e ai colleghi della maggioranza che Draghi chiede di preservare ma agli eletti che fino a due giorni fa guardavano con preoccupazione il passaggio del presidente da Palazzo Chigi al Quirinale perché avrebbe moltiplicato le probabilità di chiudere la legislatura. Conte ha accarezzato l’idea di tornare al voto, in modo da ripartire da un M5S ridimensionato ma sotto il suo controllo. Poi però si è guadagnato il consenso di molti deputati e senatori garantendo loro che avrebbe lavorato per allontanare le urne e portare la legislatura alla sua scadenza naturale.

Proprio l’ex presidente del consiglio, del resto, ha preso l’impegno di consultarsi con il Pd e di tenere una linea comune sul Quirinale. Il che significa che oltre all’ansia degli eletti c’è da tenere in conto l’alleanza strategica. Il capo politico deve valutare i pro e i contro di una scelta che potrebbe allungare la vita a tanti eletti ma che al tempo stesso darebbe un’ulteriore segnale della compatibilità del suo M5S col sistema dei partiti. L’operazione avrebbe l’effetto di stringere il patto con il centrosinistra e di confermare la larga alleanza che dovrebbe eleggere Draghi e che potrebbe segnare anche la prossima legislatura. Non è detto che sia un passaggio indolore: ancora ieri i senatori anti-Draghi reintegrati d’ufficio nel gruppo dal collegio di garanzia di Palazzo Madama sparavano a palle incatenate contro la linea di Conte in nome del ritorno ai «valori originari».

L’altra variabile è legata al peso di Di Maio nelle scelte strategiche del M5S. Il ministro degli esteri cura e fa pesare le proprie relazioni politiche e istituzionali, ieri era in Kuwait dove ha salutato i militari italiani «che portano alto il nome dell’Italia nel mondo». Nelle settimane scorse non ha fatto tanto per dissimulare il suo attivismo, inoculando nel dibattito una robusta dose di realismo quando ha detto che per il Colle sarebbe stato inevitabile «parlare con la destra». Il suo interlocutore da quelle parti, il leghista Giancarlo Giorgetti, ha detto in tempi non sospetti che Draghi avrebbe potuto tranquillamente traslocare al Quirinale e al tempo stesso vigilare sull’agenda di governo. Ma Di Maio in questi anni nei palazzi ha imparato che bisogna aspettare il momento giusto per esporsi. Forse per questo ancora non si è espresso.