L’area (…) tra le mura della medina e i giardini di piazza Orson Welles, era un tempo meta quotidiana di un’anziana gattara paraplegica. Ci arrivava ogni giorno verso il tramonto, su una vecchia sedia a rotelle spinta dal marito, come lei anziano e dall’aspetto assai dimesso. Sulla carrozzella erano appesi sacchetti di plastica colmi: prima di arrivare là, i due erano passati dal suq a fare incetta di frattaglie e pesce invenduto.

Ogni pomeriggio, a precederli era un bel gatto fulvo-tigrato che avanzava con la coda ritta verso l’alto e l’aria trionfante, quasi fosse suo il merito d’essere riusciti, anche quel giorno, a rifornirsi di cibarie. Il terzetto aveva la forza espressiva di un’immagine pittorica: icona simbolica della povertà compassionevole e della simbiosi tra umani e felini.

Giunti alla meta, il marito accostava al muro la sedia a rotelle, il fulvo-tigrato si sedeva accanto e lei cominciava a distribuire il cibo, circondata da una schiera di gatti affamati quanto pazienti e garbati: sapevano che ognuno avrebbe ricevuto la giusta razione, come ogni giorno. Poco dopo, immancabilmente, sopraggiungevano dei gabbiani: anch’essi avrebbero ottenuto la loro porzione dopo che i gatti si fossero ben rimpinzati.

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Ero venuta a sapere da alcuni abitanti di Essaouira della morte della vecchia gattara. Poi, grazie a qualche testimonianza, confermata da fotografie ritrovate in rete, avevo scoperto che ne era stato del vedovo. Non si era liberato della vecchia sedia a rotelle, per quanto sempre più malandata: aveva continuato a usarla per trasportare un secchio di plastica azzurra, pieno di cibarie per gatti e gabbiani. Coltivava l’impegno e la passione di nutrirli con la medesima costanza della defunta. Forse lo faceva in sua memoria o piuttosto perché era stato quel rituale quotidiano a scandire i loro giorni, a conferire senso e valore alla loro umile esistenza. Pur così poveri, i due potevano concedersi il lusso della generosità. Per quanto marginali, erano importanti per un buon numero di viventi.

Più tardi ho appreso che anch’egli è morto, nel 2013. Un amico mi racconta che la loro modesta abitazione era piena di gatti, compreso il fulvo-tigrato, e che avevano adottato anche una bambina, che oggi è una donna sposata. Aggiunge che un tempo sopravvivevano grazie al lavoro di lui: come altri diseredati di Essaouira, aveva una carretta a mano, di quelle usate per trasportare i bagagli dei turisti attraverso la medina, chiusa al traffico. Ormai troppo avanti negli anni per un lavoro così faticoso, aveva dovuto abbandonarlo. Eppure – mi è venuto da pensare – per gran parte della vita e fino alla fine, il pover’uomo non ha fatto altro che “spingere la carretta” e non solo in senso figurato.

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Un mattino di novembre del 2014, percorrendo il lungomare, noto un uomo di mezz’età, un proletario locale, forse un disoccupato, seduto sul sedile di tufo di fronte alla grande spiaggia, la sua vecchia bicicletta posata sul fianco del muretto che contorna le aiuole. Sta lì guancia a guancia, letteralmente, con un bellissimo gatto dal manto interamente bianco, che protende la testa verso di lui dal muretto ove è seduto sulle zampe posteriori.

uomo, bicicletta e gatti
foto di Annamaria Rivera

Sorrido all’uomo. Lui mi rivolge la parola e mi dice, quasi a giustificarsi, che non ha niente da dar da mangiare a quel gatto incontrato da poco eppure così affettuoso. Purtroppo neanche io: ho appena esaurito la riserva di croccantini, gli dico; però vado a ricomprarli subito, lo rassicuro. Quando ritorno col pesante sacco di plastica, l’uomo e il gatto bianco sono scomparsi.

Dopo un po’ intravedo da lontano lui che mi cerca. Procede con la sua bicicletta tenendo in mano un sacchetto trasparente che contiene degli avanzi di cibo. Mi raggiunge e mi chiede del gatto, ma neppure io so dove sia. «Sono tornato a casa per recuperargli qualcosa da mangiare, mi dice, peccato che se ne sia andato, ma prima o poi tornerà, spero». Entrambi un po’ delusi, posiamo le rispettive cibarie in un angolo dell’aiuola riparato, conversiamo per un po’, poi ci salutiamo con calore, quasi da vecchi amici.

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Se si attraversa il lungomare, non si può fare a meno di notare una donna in grembiule e hijâb bianchi che ogni giorno dà da mangiare a gatte e gattini, e spesso li accarezza. È Hafida, la custode dei gabinetti pubblici per donne, con la quale ho fatto amicizia nel corso del tempo.

È gioviale, comunicativa, sempre sorridente, nonostante la vita difficile: il marito è disoccupato da lungo tempo, il più piccolo dei suoi due bambini è nato con una grave malformazione cardiaca. È perciò che ha accettato quel lavoro, mi racconta, per mantenere la famiglia e soprattutto per poter comprare le medicine, sempre più care, di cui il bimbo ha bisogno.

Nonostante la sua condizione, anche Hafida si concede il lusso di prendersi cura dei gatti, ma pure di qualche cane: ogni mattina arriva al lavoro portando da casa un sacchetto colmo di cibo, di solito del cous-cous con qualche condimento. Per aiutarla e per integrare un vitto così povero, ho preso l’abitudine di lasciarle ogni giorno una buona quantità di croccantini, cosa che mi permette anche di fermarmi a conversare con lei.

Sebbene parli un francese stentato quanto il mio arabo, in più inframmezzato dal dialetto locale, riusciamo a comprenderci bene aiutandoci con la gestualità, gli sguardi, i sorrisi. Spesso parliamo di gatti e di altri animali. Concordiamo che i felini sono intelligenti, sensibili, acuti. Anche sensitivi, aggiunge lei nel corso di una delle nostre chiacchierate: non usa questo termine, ma mi riferisce degli episodi e io ne aggiungo altri. Pure i cani lo sono, insiste più volte: per esempio, loro sentono se una persona è cattiva, anche se non l’hanno mai vista prima, e perciò cercano di evitarla (…).

Una mattina, mentre stiamo per accomiatarci, le chiedo come cercarla se mai non dovessi trovarla lì, davanti ai gabinetti pubblici. Mi risponde che basta chiedere in giro di Hafida Pipì: è così che mi conoscono tutti, aggiunge con un sorriso ironico e divertito.

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Nelle giornate convulse del festival della musica gnawa, quando la città si riempie di una folla immensa e la medina di un gran numero di venditori ambulanti giunti da ogni dove, soprattutto dal Senegal; quando gatti e cani, in preda a grande agitazione, tendono a fuggire e a nascondersi; è allora che ho conosciuto un giovane senegalese, che gli abiti multicolori e la capigliatura rasta non fanno passare inosservato. È Mamadou D. il quale, dopo vari tentativi, avventurosi quanto vani, di raggiungere l’Europa, per ora sopravvive vendendo per strada i suoi collage: ingegnosi e coloratissimi, fatti per lo più di frammenti di lattine di alluminio.

Avevo notato che nei pressi del ristorante popolare si aggirava una gatta con i suoi quattro cuccioli, dei perfetti certosini, nati da poco. Qualche giorno più tardi i gattini si erano ridotti a due. Stavano con la madre, riparati in un angolo protetto da una paratia di legno, accanto alla porta di quel ristorante. Lì davanti, su un’esigua striscia di selciato, l’artista itinerante era riuscito a stendere un tappeto e a posarvi i suoi lavori in vendita.

Preoccupata per la sorte dei cuccioli superstiti, uno dei quali ha segni evidenti di un’infezione oculare, cerco di darmi da fare per garantire a tutti del latte quotidiano e alla madre del cibo nutriente. Non sempre riesco a scovare i tre. È in una di queste circostanze che Mamadou si accorge della mia ricerca ansiosa, mi viene incontro e m’indica dove sono nascosti.

Nonostante debba destreggiarsi fra l’impegno per cercare di attirare qualche cliente e l’allerta costante per salvare la sua mercanzia dalla valanga di passanti che minaccia di travolgerla, li tiene d’occhio continuamente e lui stesso se ne prende cura: tra le altre cose, ogni giorno deterge gli occhi al micino malato. Spontaneamente stabiliamo un’intesa e ci coordiniamo per la distribuzione del latte e dei croccantini. Finiamo così per diventare amici (…).

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Per concludere: tutte queste persone si comportano quasi come il povero del Secondo Libro di Samuele, il quale «non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata« e che «gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno». Egli la amava, quella pecorella, nonostante vivesse in una società di pastori, in cui gli agnelli venivano uccisi abitualmente. E l’amava non perché fosse privo di affetti e di figli, ma perché essa «era realmente una creatura viva bisognosa d’amore ed era in grado di rispondere alle cure parentali» (per citare Mary Midgley).

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foto di Annamaria Rivera

Dunque, ben lontani dall’essere sempre prodotto dell’opulenza contemporanea, indizio di «regressione sociale e culturale», espressione di «un nuovo oscurantismo», sintomo dell’«arretramento dei valori umanistici» (come sostiene Jean-Pierre Digard), la familiarità con gli animali, il rapporto affettivo e di cura nei loro confronti, fino alla simbiosi e al maternage, si configurano, in realtà, come un universale antropologico o almeno come un costume decisamente transculturale (…). Ancor meno fondato è sostenere che la familiarità con i non-umani sia sempre ozioso capriccio da benestanti e surrogato di cure parentali, se si considera che popolazioni viventi ai limiti della sopravvivenza sono (o erano) solite integrare nella loro società animali da affezione.

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In fondo, anche per le persone più povere di Essaouira la sollecitudine e la cura rivolte ai non-umani rappresentano l’eccedente o il superfluo, si potrebbe dire. Concedendosi il lusso del senso e del dono, dell’affettività e del maternage più gratuito, si sottraggono alla ragione economica e utilitaria che le ha condannate, spezzano la catena dell’obbligata dipendenza dal bisogno cui la società le ha legate, e le immagina schiave. Riconquistano così il loro spazio di autonomia e dignità, valore e libertà, ove esse sono partner di una relazione con le altre creature che prescinde da differenze di specie, di genere, di classe.

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foto di Annamaria Rivera

Il testo è un’anticipazione tratta da «La città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira» (Dedalo, Bari 2016). Tra narrazione in prima persona e analisi antropologica, con apparato fotografico inedito, è un ritratto della città sud-occidentale del Marocco e del rapporto di tolleranza e compassione instaurato dai suoi cittadini – soprattutto i più poveri e disagiati – con i tantissimi gatti (ma anche cani e gabbiani) che la abitano.