Durante la campagna elettorale del 2008 Walter Veltroni si riferiva a lui solo come «il principale esponente dello schieramento a noi avverso». L’innominabile, Silvio Berlusconi, accusava invece Veltroni di «arrivare a negare pubblicamente di essere stato comunista», mentre il Cavaliere voleva inchiodare quelli del «Pci-Pds-Ds-Pd»: il nome cambiava ma dietro la maschera erano sempre i mostri del «Libro nero», che i bambini li mangiavano sul serio. Alla faccia di tutti gli sforzi che i «compagni» stavano facendo da anni per allontanare da sé lo «stigma».

«Facevamo schifo», diceva la copertina del «manifesto» del 17 ottobre 1999, dove campeggiavano Walter Veltroni e Massimo D’Alema allora impegnati in abiure o mea culpa: erano i tempi del famoso e fumoso «dossier Mitrokhin», una scadente spy story che doveva servire a inchiodare la nomenklatura del Pci a oscure trame con Mosca finalmente svelate. Peccato che al coro di chi reclamava la «disclosure» si fossero uniti proprio i due leader, come a invocare una liberatoria messa alla sbarra.

Dieci anni erano passati da quella domenica 12 novembre 1989 quando alla Bolognina, alle celebrazioni del 45simo anniversario della battaglia di Porta Lame, si presentò Achille Occhetto per pronunciare il discorso della «svolta»: «Non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso». A margine il segretario del Pci chiarì che sì, quelle parole tanto solenni quanto vaghe «lasciano presagire tutto», compreso il cambio di nome del partito. Ma «L’Unità» diretta da Massimo D’Alema il giorno dopo aprì su Modrow, nuovo presidente della Repubblica democratica tedesca. Seguì il lungo «tormento», come Occhetto lo definì al Comitato centrale del 20 novembre quando chiese: «Fino a quando una forza di sinistra può durare senza risolvere il problema del potere, cioè di un potere diverso?».

E’ così che, con la lacerante liquidazione del più grande partito comunista dell’Europa occidentale (allora 1.264.790 iscritti) comincia la mai terminata ricerca di una nuova «Cosa». L’ultimo congresso del Pci, il ventesimo, si apre il 31 gennaio del 1991 a Rimini e si conclude il 3 febbraio con la nascita del Partito democratico della sinistra, primo segretario Occhetto, presidente Stefano Rodotà. Sul simbolo si erge la Quercia, la falce e il martello diventano piccoli piccoli alle radici dell’albero. Lo stesso 3 febbraio a Rimini una parte del «fronte del No» alla mozione Occhetto dà vita il Movimento per la Rifondazione comunista che diventerà Partito il 15 dicembre. «L’Unità» da «organo del Partito Comunista Italiano» diventa «giornale fondato da Antonio Gramsci».

Alle politiche 1992, anno dell’adesione all’Internazionale socialista, il Pds ha un magro 16,1%. Nel 1994 la «gioiosa macchina da guerra», la coalizione i «Progressisti», viene travolta dal fenomeno Berlusconi emerso dalle macerie del dopo Tangentopoli. Occhetto racconterà di D’Alema che entra nella sua stanza a Botteghe oscure e gli fa: «Sei tecnicamente obsoleto. Te lo dice un deputato di Gallipoli». Ma il segretario si dimette solo dopo la sconfitta alle europee.

A scegliere il successore tra gli eterni duellanti D’Alema e Walter «l’americano» sarà il Consiglio nazionale, ma prima si sperimenta la strada suggerita da Scalfari: un referendum tra i 19.000 dirigenti. Vince Veltroni ma nessuno supera il quorum e quindi tocca al Cn: il 1 luglio 1994 D’Alema è segretario, Scalfari titola su «Repubblica»: «Il pugno del partito».

Arrivano gli anni dell’Ulivo, l’incontro con la cultura cattolico democratica, insomma tra ex Pci e ex Dc. Deus ex machina della «candidatura» di Romano Prodi a palazzo Chigi è D’Alema: per i comunisti, ancorché ex, vige il «fattore K», sindrome introiettata al punto che il «deputato di Gallipoli», poco prima di diventare premier nell’ottobre ’98, dirà al Costanzoshow: «La mia candidatura non è mai esistita. Noi, io, il partito siamo figli di un dio minore».

Alle elezioni del ’96 il Pds ha preso quasi 8 milioni di voti, il 21,1%. L’Ulivo non è una nuova casa (o Cosa) ma un rissoso condominio: il partitista leader Pds piccona l’albero prodiano a più riprese. Il 9 marzo 1997, al seminario nel castello di Gargonza, D’Alema sferra il frontale: « L’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi e il ’comitato’ è un sottoprodotto rispetto a queste due tragedie». Un dardo contro Prodi e i comitati per l’Ulivo.

Ma D’Alema apre anche uno scontro con la Cgil, strapazzando il contratto nazionale di lavoro sventolato «fuori dalle fabbriche» al congresso del febbraio 1997. Di fronte a lui, Sergio Cofferati lo fissa livido.

Nel 1998 parte la ricerca della «Cosa 2» nel solco delle socialdemocrazie europee, per incamminarsi lungo la terza via blairiana: a febbraio a Firenze, D’Alema lancia il «cantiere» con socialisti e riformisti cristiani. Tocca ai Democratici di sinistra: la rosa sostituisce la falce e martello che si era persa sotto la quercia. Con il trasloco del «figlio di un dio minore» a Palazzo Chigi per il governo «Falce e Mastella» e della guerra del Kosovo, Veltroni diventa segretario. Alle europee del 1999 i Ds ottengono il 17,4%. Il congresso dell’«I Care» conferma Veltroni.

Alle politiche del 2001 torna l’Ulivo capitanato da Francesco Rutelli. Vince Berlusconi. Forza Italia sfiora il 30%, i Ds crollano al 16,6%, e poco sotto si piazza la lista della Margherita. Veltroni trasloca agilmente (tra frecciate avvelenate) in Campidoglio. Dal 16 al 18 novembre a Pesaro si tiene il nuovo congresso dei Ds. Candidati alla segreteria sono Piero Fassino, Giovanni Berlinguer per il «correntone» di sinistra e il liberal Enrico Morando. La mozione Fassino ottiene il 61,8%, Berlinguer il 34,1%.

Pochi mesi dopo, il 3 febbraio 2002, l’Ulivo si ritrova in piazza Navona, sul palco sale Nanni Moretti e scende il gelo tra i leader: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Si apre la stagione dei «girotondi» verso i quali le anime diessine si dispongono in modo molto diverso (D’Alema malissimo). Si comincia a discutere di una federazione dell’Ulivo e lo scontro tra leader imperversa: la proposta è di Fassino, Rutelli dovrebbe prendere la guida della federazione (accerchiato da un direttorio) e lasciare quella della Margherita ma teme il trappolone, una parte dei Ds non vuole il centrista…

Nel 2003 Prodi lancia la lista Uniti per l’Ulivo (Ds, Margherita, Sdi, repubblicani) per le europee del 2004. Dopo scontri interni ai Ds e tra alleati, la lista ottiene il 31,8% e poi si scompone tra famiglie europee. Il dibattito Ulivo sì Ulivo no tiene banco, Prodi ci riprova con la Fed, si arriva a fatica al congresso dei Ds del febbraio 2005 a Roma. Contro la Fed è la mozione di Fabio Mussi che vuole allargare a sinistra, Cesare Salvi propone sì una federazione, ma con Prc, Comunisti italiani e Verdi. Con il 79% vince Fassino, ma la Fed è un altro piccolo tormento. Dopo le regionali Rutelli vuole tenersi il suo partito e a far esplodere i federati è anche il referendum sulla procreazione assistita.

Alle politiche 2006 torna Uniti nell’Ulivo (senza Sdi), ma dispersi nell’Unione, la coalizione da Bertinotti a Mastella. Prodi vuole l’incoronazione popolare: alle primarie votano in 4 milioni, più di tre per il professore. L’Unione vince (male), si apre la strada verso il Pd. Nell’aprile 2007 i Ds celebrano il congresso di scioglimento e si scioglie in lacrime anche Fassino.

Veltroni lancia il «partito a vocazione maggioritaria», Mussi e i firmatari della sua mozione non lo seguono. A giugno, al Lingotto di Torino, il discorso del futuro segretario del «partito del nuovo millennio e della libertà, che sfiderà i conservatorismi di destra e di sinistra». Il 24 ottobre del 2007 ai gazebo vanno 3 milioni e mezzo di persone, più di 2 e mezzo per votare Veltroni.