Del Sessantotto possediamo ormai una conoscenza meno aneddotica, anche grazie alle pubblicazioni del cinquantenario appena trascorso. L’idea di un movimento neutro che si è radicalizzato nel corso della protesta è stata messa da parte dagli storici. Inoltre, come ha sottolineato Francesca Socrate, nel 1968 anche solamente tre o quattro anni di differenza possono marcare una distanza tale da parlare di due diverse generazioni sociali. Il libro di Monica Galfré, La scuola è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria italiana (Viella, pp. 319, euro 25) aggiunge un altro tassello, ma pone l’attenzione su «un gruppo molto più omogeneo e identificabile». Sono gli studenti medi, che fanno allora il loro ingresso definitivo nella scena pubblica. Nati nella prima metà degli anni Cinquanta, appartengono alla prima generazione uscita dalla scuola media unica voluta dal centro-sinistra. Sono i Gianni e i Pierino di Lettera a una professoressa di Milani, nonché il principale target commerciale della società dei consumi. In altre parole, siamo di fronte al soggetto sociale più ricettivo di quell’immaginario internazionale fatto di musica, moda, e politica che ha fatto del ’68 un fenomeno di trasformazione globale.

UNO DEGLI ELEMENTI più interessanti che emerge dalla ricostruzione è l’abbassamento dell’età d’ingresso nella politica. Già i numeri parlano chiaro: nell’anno scolastico 1967-1968 sciopera mezzo milione di studenti delle scuole superiori, 20 mila occupano, 50 mila partecipano alle assemblee. L’anno successivo queste cifre gonfiano a dismisura. Protestano i licei, a partire dal Berchet di Milano nel gennaio 1968, seguito qualche mese dopo dal Parini e a Roma dal Mamiani, ma anche gli istituti magistrali, tecnici e professionali, a riprova del fatto che non si tratta di una protesta ad appannaggio della buona borghesia. Inoltre, Galfré ci mostra come la protesta abbia coinvolto indirettamente tutta la società: dai presidi, agli insegnanti, ai genitori. I primi oscillano tra atteggiamenti repressivi e la tendenza maggioritaria – esemplare il «caso Mattalia» a Milano – a evitare l’intervento poliziesco, preferendo piuttosto coinvolgere le famiglie «che da questo momento diventano una presenza stabile nelle scuole». Gli insegnanti invece sembrano più disponibili a solidarizzare con i ragazzi, talvolta partecipano direttamente alla protesta riflettendo così «le inquietudini di una categoria che è diventata più precaria e sensibilmente più giovane». Va dunque corretta l’immagine dell’istituzione come blocco unico e impermeabile.

TRA LE PAROLE D’ORDINE ricorrenti spicca l’anti-autoritarismo, cifra dell’intero ’68, che viene declinato dagli studenti contro l’impostazione classista e gentiliana della scuola. Si contestano poi l’autorità degli insegnanti, ai quali si chiede di adottare nuove forme di didattica collettiva; i meccanismi disciplinari; i disservizi culturali, amplificati dalla crescita degli iscritti. Tuttavia, la vera peculiarità del movimento sembra consistere nella volontà degli studenti di collegarsi alle lotte politiche universitarie, operaie e internazionali, «come se non esistesse più nessun tipo di barriera e confine». La dimensione del conflitto con i genitori riflette una differenza profonda nel modo stesso di concepire la vita sociale. A sua volta, il movimento è diviso tra i rappresentanti delle organizzazioni giovanili di partito e le frange più radicali che guardano a una nuova sinistra.

Il Pci è l’unico partito che sostiene apertamente gli studenti, mentre il governo cerca di contenere la protesta con alcune «concessioni». La più significativa è il diritto all’assemblea di istituto, introdotto dal ministro Sullo insieme alla riforma della maturità. Ma sono proprio questi successi a convincere il movimento della propria forza e a rilanciare la lotta negli anni scolastici successivi. Insomma, «a dispetto dei luoghi comuni», il ’68 ha inciso davvero sulla trasformazione della scuola, aprendo la discussione degli anni successivi sull’età dell’obbligo e sulla funzione pubblica dell’istruzione.