Meno di quarant’anni fa, Fernand Braudel, in un suo saggio sulle terre del Mediterraneo, riservava l’attributo che è proprio di un paesaggio perfetto esclusivamente alla campagna attorno a Palermo: la Conca d’oro, ricoperta di alberi di limone e mandarino, era «paradisiaca». Ma già da vent’anni era arrivato l’inferno. Tra il 1965 e il 1970 ogni anno avevano cambiato uso oltre 200 ettari – 3000 nei due decenni – e da terre di leggendaria fertilità erano diventate una brutta periferia di cemento e di asfalto. Fu «il sacco di Palermo». Mafia, politica e affari avevano assunto un unico volto: quello di Lima e Ciancimino, con la complicità della Chiesa e dell’aristocrazia proprietaria, nel silenzio della borghesia e degli intellettuali con la sola eccezione del giornale L’Ora.

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In quegli anni si raggiungeranno, scriverà la Commissione Antimafia, «vertici sconosciuti nell’inosservanza delle leggi» e gli orti e i frutteti che costituivano il prevalente uso del suolo, esprimendo al meglio i caratteri di utilità e bellezza che sono propri delle pianure costiere mediterranee fertili e irrigue, si ritrovarono ai margini della piana, fazzoletti profumati e colorati tra i palazzi della speculazione. Solo qualche ampio agrumeto resisteva ancora integro: nella borgata di Ciaculli la mafia li aveva riservati per sé, futuro bottino mentre procedeva all’assalto del centro storico. Il consumo di suolo, negli anni che seguirono, si attenuò appena, scese a 70 ettari tra il 1990 e il 2000 e quindi arrivò a 40. Il sacco di Palermo sembrava però non avere fine: prima il Quartiere Zen, monumento

all’autocompiacimento degli studi di architettura, poi le 314 villette arrampicate sulla «collina della vergogna», quindi l’abusivismo irrefrenabile (60.000 richieste di condono) e centri commerciali su oltre cento ettari. L’ultimo di questi, aggiungendo la beffa al danno, fu battezzato «Conca d’oro». Non servì neanche un buon piano regolatore. Quello di Cervellati, redatto nel 1994 ma definitivamente approvato nel 2002, riservava grande attenzione al verde agricolo: l’agrumeto di Ciaculli – il più vasto e integro della città – benché privato, veniva vincolato come bene di interesse pubblico. In quegli anni un progetto finanziato dalla Ue, che mirava alla creazione di un parco agricolo periurbano, regalò alla città il premio di “città sostenibile”, agli agricoltori l’acqua per irrigare a metà prezzo e continuare così a coltivare con profitto gli agrumeti storici, agli abitanti e ai turisti il piacere di passeggiare tra le zagare e i frutti degli agrumi. Durò poco, appena un anno: la politica locale non lo considerò prioritario e la Regione si limitò, nell’approvazione del Prg, a considerare i giardini (così i siciliani chiamano i loro frutteti) di Ciaculli normale zona di verde agricolo. Si apriva la strada alle varianti: quella dei centri commerciali, delle cooperative edili e dei piani integrati mentre nuove concessioni occupavano le aree ancora disponibili del piano regolatore.

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Nel 2012, reputando necessario avviare la revisione del piano Cervellati, la giunta della nuova amministrazione Orlando votò le direttive generali per la formazione del nuovo Prg: abusivismo e varianti avevano mutato lo stato dei luoghi e bisognava soddisfare gli standard urbanistici. Come se non bastasse, la precedente amministrazione – di centrodestra – si era esercitata in un immaginifico piano strategico che, nel nome della «valorizzazione delle risorse ecologiche e ambientali», prevedeva centri direzionali, nuovi mercati generali, una tangenziale che riuniva le due autostrade verso Trapani o Messina, un “water front” che riqualificava i porticcioli della costa. Il consumo di suolo era pronto a riprendere nuova lena. Porti turistici nelle borgate di pescatori, nuovo cemento sugli agrumeti e una tangenziale da incubo: alle pendici delle montagne che chiudono la Conca, 18,5 chilometri con 6 svincoli, un viadotto di mille metri e cinque gallerie per complessivi 9 km, con grandi rischi di dissesto idrogeologico in un territorio già compromesso e un costo previsto di 800 milioni di euro che la stessa Anas, che ha redatto lo studio preliminare, definisce ai limiti della sostenibilità. Facile immaginare – è la lezione del sacco – cosa succederebbe dei residui ettari di verde al di qua della tangenziale pedemontana.
Le direttive del nuovo Prg del 2012 parlano di assenza di armonia tra il vecchio Prg e il piano strategico, che più volte viene dichiarato superato, ma mai formalmente respinto. La sua presenza tra gli allegati alle direttive alimenta anzi una continua polemica tra chi non si accontenta di generici impegni ma vorrebbe atti chiari: un no deciso alla tangenziale e uno stralcio nel vecchio Prg, annunciato ma mai arrivato, delle zone verdi esistenti per evitare nuove urbanizzazioni, come quelle in variante del cimitero da realizzare proprio a Ciaculli o dei nuovi mercati generali nel quartiere di Bonagia su un’area di oltre 20 ettari, che confina con il ninfeo barocco della settecentesca Villa Trabia di Campofiorito. Un clima di sospetto permane tra l’amministrazione e la gran parte delle associazioni di cittadini, che invocano quel processo di urbanistica partecipata annunciato, ma mai decollato per reciproche diffidenze.
In attesa che si istituisca l’ufficio del nuovo piano o, come si è anche ipotizzato, si proceda adeguando il vecchio con definiti piani particolareggiati, il futuro urbanistico di Palermo rimane incerto, tra notizie allarmanti: un nuovo centro commerciale, un mega acquario, l’idea mai abbandonata di un centro direzionale.
A chi teme un nuovo assalto cementizio non può bastare che si scriva che deve contenersi il consumo di suolo. Servono politiche concrete e non adesioni a slogan. Potrebbe bastare dare seguito a due delibere di giunta. Una riguarda i 235 ettari della Favorita, parco ibrido tra aree naturali, giardini storici e paesaggi agrari tradizionali, per il quale è necessario arrivare a un piano di gestione; e non bastano populistici proclami di chiusura al traffico di strade oggi irrinunciabili per collegare la frequentatissima borgata balneare di Mondello. L’altra riguarda quel 25% della superficie complessiva della Conca d’oro ancora non coperto dal cemento e per la cui salvaguardia si deve puntare ad una difesa attiva degli spazi verdi che promuova l’attività agricola, incentivando vecchi e nuovi produttori e, considerando l’ interesse pubblico, sostenga gli interessi ambientali, sociali, culturali e non sia affidata solo alla legge del mercato per quanto interessato a tipicità e qualità. Se così non fosse, se non si riuscisse a sostenere la presenza degli agricoltori, all’abbandono dei giardini, come avviene in misura ogni giorno crescente, seguirebbe l’invasione dei rovi e degli ailanti, la morte degli alberi da frutto, gli incendi, le discariche, l’abusivismo e poi, chissà, nuovi palazzi.
Non si tratta di affermare una visione nostalgica che guarda a un glorioso passato agricolo ma operare – e, essendo stato assessore all’ambiente fino allo scorso aprile, penso che ce ne siano tutte le premesse politiche – per la nascita di un sistema agricolo locale, urbano e periurbano, centrato sul raccordo (a km zero) tra produzione e consumo, sul riconosciuto ruolo polifunzionale dell’agricoltura non solo produttrice di alimenti, ma anche depositaria di valori e di stili di vita, capace di gestire in modo equilibrato le risorse naturali e ambientali e di tutelare e salvaguardare un paesaggio agrario tra i più illustri.
Per giungere a questo, grazie alla spinta di un comitato civico costituito da più di settanta enti e associazioni, veniva firmato un protocollo d’intesa con la Regione che avrebbe dovuto portare ad un piano di investimento integrato per utilizzare le risorse della programmazione comunitaria 2014-2020. Con la Favorita (tra i più grandi parchi urbani nel mondo, ricco di storia e natura), con la rinascita dell’agricoltura della Conca d’oro, insieme al recupero dei giardini di cultura islamica del Genoard, con i tanti giardini storici che percorrono la storia del paesaggio mediterraneo, con una diversa attenzione a un sistema verde multifunzionale di eccezionale valore, vale la pena di riproporre la domanda che Guido Piovene si pose in un suo viaggio in Sicilia del 1957: «Come sarà Palermo tra una cinquantina d’anni? Forse nessuna città italiana costringe a questa domanda con tanta nettezza».